C’è un Hemigway parigino, uno
spagnolo, uno cubano, uno africano, nella sua opera letteraria. Su fondo ben americano.
E uno italiano:; in Itala esordì, col racconto di Caporetto e la Grande Guerra,
e s’illustrò, tornandoci poi spesso in vacanza, se non per ragioni di vita.
Sempre gradevolmente grato: “I miei scritti dall’Italia”, nota egli stesso, “hanno
quel non so che di speciale che si riesce a mettere solo nelle lettere d’amore”.
Owern ricostruisce molti particolari
dei suoi legami e le visite in Italia. La notte in cui si uccise passò
moltotenmpo a salmodiare una canzone appresa in Guerra a Cortina. Ma trova
anche una sorta di traccia indelebiole impressa nella sua visione di vita dal Tagliamento,
dalla laguna di Venezia alle Dolomiti, la tela di fondo di “Addio alle armi”.
“Addio alle armi” riletto è
il romanzo più vero della Guerra sul Carso, e sulla vergogna del dopo-Caporetto,
delle fucilazioni all’impronta da parte dei Carabionieri, della guerra dei
generali inetti che i soldati concepivano come massa, una sorta di barricata
umana. Un capolavoro, di intriospezione, capa cità di giudizio, compassione. Che
forse per questo si tace nelle tante evocazioni della guerra, anche, ora, del
sinistro 1917 che Hemingway ragazzo, fresco volontario, si trovò a dominare per
sopravvivere, da semplice lettighiere.
Richard Owen, Hemingway e l’Italia, Donzelli, pp. 227, ill. € 25
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