Addis Abeba cinquanta e poi quarant’anni fa,
visti al loro club, club Juventus beneaugurale per una comunità ormai di
sessanteni e più, gli italiani d’Etiopia, gli ex coloni dell’impero brevissimo,
non vantavano niente, se non il mal d’Africa. Il più giovane tra loro, “Pino il
sarto”, con atelier in pieno centro della città, a un primo piano, aveva
provato e rientrare. Era andato dalla sorella a Roma, in un condominio
al Tiburtino Terzo, e ne era scappato. Ad Addis Abeba aveva una casa propria col
giardino, seppure in periferia, i suoi figli andavano alla scuola americana e al
maneggio, col cavallo di proprietà. Solo tra i vecchi in attesa al club scrostato sorrideva il Tabbutaro,
siciliano, un militante, era stato volontario nella guerre per l’impero, e non
era cambiato. Un siciliano gigante: ex garzone di ebanista, non aveva fatto in tempo a imparare il mestiere, la guerra lo
chiamava. Fabbricava casse da morto, in siciliano tabbutu o tambutu, da cui il nome. “Non è un buon
momento”, lamentava, “ si
affittano le bare per i funerali”. Il Tabbutaro
aveva gli occhi neri cerchiati di nero, l’abito nero, i denti cariati, i pochi
sopravvissuti. Il problema a Addis Abeba era economico e non morale, perché i
russi e i colonnelli, che si erano presi il potere, non avevano chiuso i
bordelli aperti dagli ameircani ma non spendevano più.
Hailé Selassié aveva protetto
gli italiani d’Etiopia e la cooperazione con l’Italia. La centrale elettrica
con le turbine italiane funzionava a pieno regime, silenziosa, abbastanza, e pulita.
Mentre lo zuccherificio regalato da
Castro, enorme, gemeva come se stesse per abbattersi sfiancato, e forse si dava
in vita solo per non deludere il visitatore. Si mangiava in terrazza
la cucina del Sud che in Italia non c’era più, nel quartiere Piazza, che era il
centro popolare, con aceto forte e ragù ristrettissimo.
C’erano
ancora italiani a Addis Abeba, che erano stati coloni i pochi anni dell’impero,
alcuni non se ne erano voluti andare, protetti dall’imperatroe. Ma senza più
una funzione. Decine di migliaia,
forse più di centomila, derano stati o si erano trasferiti in Africa Orientale
nei tre brevi anni successivi alla proclamazione dell’impero. Illusi da Mussolini,
che li invitava al “posto al sole” di nuovo conio. E dalla “missione di civiltà” - dopo la fatale “riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma” a oiazza Venezia. Italiani brava gente, al solito, ma sempre coloni.
Gli italiani residui ancora
nel tardo dopoguerra si vedevano al Club Juventus, un edificio dalle alti
pareti che li faceva piccoli. Ognuno conservava l’accento originario, romagnolo,
siculo, veneto. Tifoso della Juventus era il romagnolo, che alla menzione dell’Ente
Romagna d’Etiopia sorrideva vago – doveva aver rimosso il tentativo di
trapiantare la Romagna tra gli ahmarà a tremila metri senza il mare, come altri
Enti il Veneto tra i galla o la Puglia nell’Harrar. Nel dopoguerra protetti dal
Negus che avevano volute morto, ma senza più una funzione: meccanici,
falegnami, barbieri, sarti, esercitavano mestieri che gli africani potevano
esercitare altrettanto bene – non propio bene, ma non male, come gli ex coloni:
non c’erano poi mestieri effettivi tra i coloni rimasti.
È una storia che aspetta di
essere ricostruita. Ertola, ricercatore della Sissco, la società degli storici contemporaneisti,
già autore di un paio di saggi sui coloni del fascismo, in Eritrea e in Etiopia,
mette una prima pietra. “Gli italiani che colonizzaronmo l’impero” è il
sottotitolo.
L’imperialismo
segue all’impero, lo disse Mussolini ma
è vero. E non gli sopravvive. L’impero di Mussolini è stato in Etiopia
cattivissimo, ha usato le bombe incendiarie, i defolianti, il quadrillage
poi fallito a Algeri, il concentramento dei maschi giovani in campi isolati.
Anche se, come tutti gli imperi, si pretese di liberazione, dall’ignoranza, la
fame, i soprusi dei ras, e
l’illusione ha perdurato. Ma sempre più residuale: la miseria del colonialismo
si vede dalla coda..
Emanuele Ertola, In terra d’Africa, Laterza, pp. 246 €
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