Un “saggio storico”. Di uno
studioso che si è formato studiando la Calabria. Verso la quale, nei suoi verdi
anni, da “napoletanp totale”, ebbe un trasporto, “folgorato dalla bellezza
della regione”, ricorda in prefazione, “allora largamente intatta, specialmente
sulle sue amrine”, e dalla “sua particolare «civiltà umana», così varia nelle
articolazion locali, eppure così unitaria nel modo di essere e di proporsi agli
altri”. Un saggo ambizioso, anche perché ineguagliato, la Calabria è ancora terra
vergine per gli storici: sia pure sia pure per “altezze e picchi anoramici”, come
diceva Mommsen, è “un profilo di storia della Calabria spagnola”. Con una
considerazione che è un invito e un auspicio: che gli storici futuri della
Calabria, che ne ha gran bosogno, possano e sappiano coniungare “spontaneità” e
“necessità” in “organicità”, come all’autore è capitato per l’ormai classico “Economia
e società nella Calabria del Cinquecento”, e ora in questa “Calabria spagnola”.
C on un corredo, anche, di tabelle e grafici che sono un romanzo per sé,
tabelle d’epoca o ricostruite, dell’economia umana come è evoluta, e del feudo,
come si è spezzettato e suddiviso nei secoli, coi nomi dei feudatari che si
succedevano..
La Calabria ha avuto due secoli
di Spagna. Nei quali si è aperto il solco dello “scambio
ineguale” delle elebo razioni terzomondistiche , o “asimmetrico”, tra materie
prme, spesso monoculturali, a basso valore aggiunto (ricchezza), e produzioni
industriali, che invece la ricchezza incorporano, sotto forma di salrio e
profitto. E dal dominio finanzirio esterno: in Calabria e nel Regno segnata nel
Tre-Quattrocento dalla potenza mercantile e finanziaria tosscana, e nel
Cinque-Seicento dai genovesi. Tra il “lungo Cinquecento” di Duby e Marrou, e la
“crisi generale del Seicento” di Hobsbawm. In polemica con Augusto Placanica,
che vede invece tutto buio: nei due secoli, scrive nella sua “Storia della
Calabria”, la regione aveva smarrrito “i pochi elementi di prestigio, economico
sociale politico” di cui aveva goduto in precedenza, e anzi “si trovò a perdere
l’identità, divenendo una delle dodici canoniche province del Regno, o, meglio,
quella in cui lo Stato rivelava sempre più le di sue carenze”.
Dopo un avvio
promettentissimo, per tutto il Cinquecento. Senza terremoti. Con la ripresa demografica. E con l’introduzione
e lo sviluppo della sericultura. Ma già a fine secolo e poi nel Seicento la
Calabria perdeva terreno rispetto al resto del Sud, come il Sud rispetto al Centro-Nord
Italia. Un divario avviato – Galasso ha vari studi in proposito, contro la
saggezza comune – dalla dinastia normanno-sveva, stabilizzato e aggravato dagli
angioini. Una specie di anti-Manzoni. Galasso non ne ha minimamente
l’ambizione, ma è di fatto quello dice: sotto la Spagna si stava meglio – non
bene, ma meglio. Che poi, specifica, quasi a voler sacrificare ai valori lombardi,
erano spagnoli austriaci: parliamo dell’epoca degli Austrias a Madrid, da Carlo
V a Carlo II.
È soprattutto nella
cultura che il “lungo Cinquecento” si mostra
anche in Calabria ferace e fiorente. La lista di personalità di spicco che
Galasso accenna è già sostanziosa, poi ineguagliata: Bernardino e Antonio
Telesio, Campanella, Parrasio, il cardinale Sirleto, Sertorio Quattromani,
Bernardino e Coriolano Martirano, Luigi Giglio, Giulio Isolino, Girolamo
Tagliavia (consultato da Copernico), Stelliola, Barrio, Marafioti, Gian
Galeazzo di Tarsia.
Due secoli di innovazione più
sul lato istituzionale che su quello economico e sociale. Furono secoli di lotta
costante alla feudalità. Esercitata da Napoli con vari mezzi, ma con
determinazione. Fino a quello che Galasso chiama – chiamava prima di Berlinguer
– il “compromesso storico” tra le Corte e i baroni, la chiesa, i comuni. Che
però intervenne dopo lo svuotamento di questi che, comunque, erano corpi
intermedi.
La feudalità era stata introdotta
dai Normanni, a partire dal secolo XI. Fallita l’offensiva francese contro
Napoli del 1528, il partito filofrancese fu stroncato anche con la perdita e la
confisca dei beni, con i diritti annessi. Beni di cui si fece poi gran
commercio, indebolendo ulteriromnete il carattere feudale della proprietà. Si
fece un’illimitata svendita di “diritti feudali ” – tutti baroni a Napoli. Si
coinvolsero interessi stranieri, di mercanti e banchieri genovesi, ijn genere
creditori della Corona, delle grandi famiglie romane, dei principati. L’acquiso
più imporante fu dei Casali di Cosenza da parte del Granduca di Toscana a metà
Seicento, i paesi a Nord di Cosenza alle pendici occidentali della Sila.
Giuseppe Galasso, La Calabria spagnola, Rubbettino, pp.
238 € 12
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