martedì 8 agosto 2017

Il Sud stava meglio con la Spagna

Un “saggio storico”. Di uno studioso che si è formato studiando la Calabria. Verso la quale, nei suoi verdi anni, da “napoletanp totale”, ebbe un trasporto, “folgorato dalla bellezza della regione”, ricorda in prefazione, “allora largamente intatta, specialmente sulle sue amrine”, e dalla “sua particolare «civiltà umana», così varia nelle articolazion locali, eppure così unitaria nel modo di essere e di proporsi agli altri”. Un saggo ambizioso, anche perché ineguagliato, la Calabria è ancora terra vergine per gli storici: sia pure sia pure per “altezze e picchi anoramici”, come diceva Mommsen, è “un profilo di storia della Calabria spagnola”. Con una considerazione che è un invito e un auspicio: che gli storici futuri della Calabria, che ne ha gran bosogno, possano e sappiano coniungare “spontaneità” e “necessità” in “organicità”, come all’autore è capitato per l’ormai classico “Economia e società nella Calabria del Cinquecento”, e ora in questa “Calabria spagnola”. C on un corredo, anche, di tabelle e grafici che sono un romanzo per sé, tabelle d’epoca o ricostruite, dell’economia umana come è evoluta, e del feudo, come si è spezzettato e suddiviso nei secoli, coi nomi dei feudatari che si succedevano..
La Calabria ha avuto due secoli di Spagna. Nei quali si è aperto il solco dello “scambio ineguale” delle elebo razioni terzomondistiche , o “asimmetrico”, tra materie prme, spesso monoculturali, a basso valore aggiunto (ricchezza), e produzioni industriali, che invece la ricchezza incorporano, sotto forma di salrio e profitto. E dal dominio finanzirio esterno: in Calabria e nel Regno segnata nel Tre-Quattrocento dalla potenza mercantile e finanziaria tosscana, e nel Cinque-Seicento dai genovesi. Tra il “lungo Cinquecento” di Duby e Marrou, e la “crisi generale del Seicento” di Hobsbawm. In polemica con Augusto Placanica, che vede invece tutto buio: nei due secoli, scrive nella sua “Storia della Calabria”, la regione aveva smarrrito “i pochi elementi di prestigio, economico sociale politico” di cui aveva goduto in precedenza, e anzi “si trovò a perdere l’identità, divenendo una delle dodici canoniche province del Regno, o, meglio, quella in cui lo Stato rivelava sempre più le di sue carenze”.
Dopo un avvio promettentissimo, per tutto il Cinquecento. Senza terremoti. Con la ripresa demografica. E con l’introduzione e lo sviluppo della sericultura. Ma già a fine secolo e poi nel Seicento la Calabria perdeva terreno rispetto al resto del Sud, come il Sud rispetto al Centro-Nord Italia. Un divario avviato – Galasso ha vari studi in proposito, contro la saggezza comune – dalla dinastia normanno-sveva, stabilizzato e aggravato dagli angioini. Una specie di anti-Manzoni. Galasso non ne ha minimamente l’ambizione, ma è di fatto quello dice: sotto la Spagna si stava meglio – non bene, ma meglio. Che poi, specifica, quasi a voler sacrificare ai valori lombardi, erano spagnoli austriaci: parliamo dell’epoca degli Austrias a Madrid, da Carlo  V a Carlo II.
È soprattutto nella cultura  che il “lungo Cinquecento” si mostra anche in Calabria ferace e fiorente. La lista di personalità di spicco che Galasso accenna è già sostanziosa, poi ineguagliata: Bernardino e Antonio Telesio, Campanella, Parrasio, il cardinale Sirleto, Sertorio Quattromani, Bernardino e Coriolano Martirano, Luigi Giglio, Giulio Isolino, Girolamo Tagliavia (consultato da Copernico), Stelliola, Barrio, Marafioti, Gian Galeazzo di Tarsia. 
Due secoli di innovazione più sul lato istituzionale che su quello economico e sociale. Furono secoli di lotta costante alla feudalità. Esercitata da Napoli con vari mezzi, ma con determinazione. Fino a quello che Galasso chiama – chiamava prima di Berlinguer – il “compromesso storico” tra le Corte e i baroni, la chiesa, i comuni. Che però intervenne dopo lo svuotamento di questi che, comunque, erano corpi intermedi.
La feudalità era stata introdotta dai Normanni, a partire dal secolo XI. Fallita l’offensiva francese contro Napoli del 1528, il partito filofrancese fu stroncato anche con la perdita e la confisca dei beni, con i diritti annessi. Beni di cui si fece poi gran commercio, indebolendo ulteriromnete il carattere feudale della proprietà. Si fece un’illimitata svendita di “diritti feudali ” – tutti baroni a Napoli. Si coinvolsero interessi stranieri, di mercanti e banchieri genovesi, ijn genere creditori della Corona, delle grandi famiglie romane, dei principati. L’acquiso più imporante fu dei Casali di Cosenza da parte del Granduca di Toscana a metà Seicento, i paesi a Nord di Cosenza alle pendici occidentali della Sila.
Giuseppe Galasso, La Calabria spagnola, Rubbettino, pp. 238 € 12

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