Nunnari parte con Croce, la
Napoli di Croce, paradiso e inferno. In una sorta di road-show della sua Calabria, cui è rimasto legato nella lunga
esperienza di giornalista Rai: un’esposizione delle ragioni dei calabresi. Che
inevitabilmente curvano, malgrado il piglio promozionale - “Il male, la
bellezza e l’orgoglio della nostra Grecia” è il sottotitolo - alla critica: il mood è allo sconforto.
Una “questione calabrese”
Nunnari si prova a definire “che è differente dalla questione meridionale”,
entro la quale si colloca. Vasto compito, si direbbe. Ma onestamente si limita
a repertoriarla, attraverso un centinaio di titoli di cui fa la rilettura, da
Carmine Abate, Alvaro e Banfield, a Zanotti Bianco e Sergio Zoppi. Con molte
accensioni amorose, e molti anatemi, meritati e non. Non c’è un “discorso” che
si possa fare in positivo della Calabria, senza tornare si soliti Grandi Greci?
Questo di Nunnari può essere allora un grido di dolore per uscire dal
prefichismo, la nenia professionale dei morti.
Prefichismo
Molto che si scrive sulla
Calabria, se non tutto, è da prefica, da lamento doloroso professionale. Non
c’è naturalmenre una professione del lutto propriamente calabrese, ma sì
un’attitudine a piangersi e compiangersi. Indotta.: il calabrese normalmente
sghignazza, anche del dolore. Ma se poco uno legge i suoi giornali, o si mette
a parlare con qualcuno che la Calabria la vive stabilmente, la cosa vira subito
alla depressione: tutto il peggio del mondo viene evocato, anche un delitto
alle Aleutine, o un’eruzione di vulcano andino, se ce ne sono, in mancanza di
disgrazie più vicine.
Il decadimento è
inarrestable? No, nemmeno in Calabria. Chi ci ritorna periodicamente - e con un
piede magari dall’interno, la Calabria non è facile da esplorare, non in
superficie - trova sempre buone iniziative. Private, come si suole dire, cioè
di singoli. Musicisti, tanti. Ricercatori, in più discipline. Imprenditori,
nella meccanica, l’agroalimentare, la ricettività. Perfino editori, si trovano,
e librerie che aprono, mentre altrove chiudono. Tanto si trova purché non sia
pubblico: statale, regionale, anche comunale troppo spesso. E qui la lista è
lunga, dei vuoti e le inadempienze: infrastrutture (viabilità, elettricità,
telefonia, acquesdotti, depurazione), servizi (rifiuti, sanità, scuola),
attività produttive e non assistenziali. Ma non speciale: le solite incompiute,
il solito ritardo, la solita corruttela in appalti, i soliti “posti” in assenza
di lavoro. E una prima conclusione se ne può trarre: la Calabria, dove il
pubblico ha un peso maggiore che il private, vive più aspra la crisi della
funzione pubblica in Italia da un trentennio a questa parte: nelle opere
pubbliche, la sanità, la giustizia e la repressione, l’ecologia, la stessa
assistenza, nelle forme fantasiose ora del terzo settore o volontariato, la
burocrazia.
Dopo il leghismo
Di speciale o tipico c’è il
recepimento: l’immagine della Calabria che alla Calabria viene sovrimposta,
fino all’autosuggestione come ogni buona pubblicità. Che i giornali locali
rispecchiano cupi ogni giorno: c’è solo questo, il decadimento. Avendo il vezzo
di leggere ovunque la stampa locale, si può testimoniare che non c’è nulla di
analogo altrove, di altrettanto virato su morte e distruzione. In elenchi perfino
abbrutiti, senza vivacità, schematici, da alfabetizzazione primaria. Ridicoli, perfino, nella ossessività. Non fosse una sorta di depressione generalizzata, da mar
morto. Altro non c’è: intelligenza, iniziativa, gioia, poesia? Non qui.
E questo è l’effetto del
leghismo. Nunnari non ne fa parola – se non indirettamente, citando da un libro
di Settis. Ne aveva però discusso, senza nominarlo, col cardinale Martini e con
mons. Pino Agostino nel 1992, in un aureo libretto intitolato “Nord Sud.
L’Italia da riconciliare” – era il cruccio di Martini, anche se non ha mai
preso posizione contro la Lega, tenendosi lontano dalla politica. Se non si fa
il caso dell’Italia leghista, di Milano contro tutti, non si viene a capo di
nulla. Il maggior giornale di Milano impegna il suo giornalista vedette a scrivere un articolo contro la Calabria, con
cadenza mensile, e questa è l’unica occasione in cui si occupa della Calabria.
Salvo dare per scontato che il malaffare a Milano, miliardi, sia cosa di quelle
che chiama le “locali” di ‘ndrangheta, piccoli affaristi che monetizzano il
voto di cugini e compari – mentre tace sul fiume cittadino di cocaina, quello
realmente miliardario e realmente di ‘ndrangheta, e di corruzione.
Introiezione
La Calabria è - sarà come
tutto - buona e cattiva. Sono i calabresi che se la fanno specialmente odiare. I
calabresi fuori dalla Calabria sono come tutti, buoni e cattivi. Nunnari può
annettersi Mauricio Macri, il presidente argentino, lo scrittore Ernesto Sabato
(ma gli scrittori sono tanti), Leon Panetta, che ha rivestito tanti incarichi
nel governo Usa. Nel nostro “Fuori l’Italia dal Sud” venticinque anni fa
potevamo rilevare come fossero tenute da calabresi molte cariche istituzionali,
quelle del cosiddetto “senso dello Stato”: la presidenza Rai, la Ragioneria
dello Stato, la Corte Costituzionale, l’Autorità antimafia, il rettorato della
Normale. Oggi potremmo metterci il ministro dell’Interno e l’ambasciatore a
Tripoli, due calabresi che, da soli, hanno risolto il traffico di clandestini
dalla Libia. Ma giusto per dire - altrove, in ambito meno depressive, non
avrebbe senso fare di queste rivendicazioni.
Per il resto, ci sono colpe
evidenti. La classe politica locale è incapace e un po’ corrotta? Non viene
calata dall’alto. La burocrazia si vuole specialmente jugulatrice o incapace?
Non è di impiegati della Patagonia. Gli impiegati pubblici (comunali,
regionali, degli enti) sono troppi e improduttivi? Lo sono, il “posto” pubblico
è il bene supremo in Calabria – per le deficienze solite del “pubblico”, concetto e fatto: non lo è più, per esempio, alle Poste dopo la
privatizzazione.
Ma, poi, la depressione, come
tutte, è anch’essa indotta. È singolare che la rabbia di Nunnari, come di tutti
i calabresi, sia improduttiva. Per troppa ricettività, stando a tutte le
apparenze: il calabrese, fatto segno di demonizzzione, la introietta e ne
soffre. Ma allora per mitezza, che ne fa un indifeso.
La mitezza è una virtù, ma
non in dosi eccessive, quando è remissività e passività. All’interno, nei
confronti dei propri politici e burocrati, e all’esterno, dell’opinione
pubblica. Dei media e di ogni altro procuratore d’informazione – per esempio i
servizi segreti, ai quali dobbiamo la decretazione della ‘ndrangheta piovra
universale, invincibile: un’intronizzazione. Si vuole del calabrese che sia testardo
e irascibile, ma allora per la violenza del mite, che non sa controllarla. Mite
fino allo sdolcinato.
Mitezza
La mitezza è un dono che è
una colpa, anche grave, in assenza di un apparato repressivo occhiuto e
tempestivo, a protezione del cittadino più che del potere astratto - al meglio
“manzoniano”, quando non è legato al peggio. Nunnari fa il caso della rivolta
di Reggio Calabria nel 1971: “La lunga protesta dei reggini si concluse un po’
«alla sovietica», con l’ingresso in città, all’alba del 23 febbraio 1971, dei
carri armati dell’esercito. Era la prima volta, nell’Italia repubblicana e
postfascista”, che il governo mandava i carri armati. Sarà l’unica. Reggio era
stata la città che al plebiascito unitario del 1861 si era espressa
all’unanimità (meno quattro voti) per l’Italia. Ma 120 anni di abbandono forse
erano troppi.
I carri armati furono mandato
a Reggio da Emilio Colombo. Che li condì con un “pacchetto Colombo” per
l’industrializzazione del reggino. Di cui non è rimasta traccia, se non alcune
devastazioni dell’ambiente, a Lamezia e a Saline, perpetrate da “industriali
della mazzetta” vicini al governo per giustificare le migliaia di miliardi di
investimenti pubblici che si intascavano. Colombo era bene un “terrone”. Mite. Che i carri armati mandò malgrado le perplessità e le resistenze del capo dello Stato, il piemontese Saragat. E la Calabria? Che c’entra la Calabria nella devastazione, a Reggio e dopo?
Sono i poli della questione.
Si annida in questa remissività in buona misura una specificità che non c’è,
una depravaziome o colpa originaria, una tabe. Nunnari dice la Calabria
politica “litigiosa”, e insieme censisce una “società parallela”, di “poteri
grigi” – cioè compatti? “La questione meridionale”, conclude, “doveva essere –
nell’idea del pensiero dei meridionalisti – questione generale dello Stato: il
banco di prova della sua stessa esistenza. Fin dal suo affiorare si è
manifestata piuttosto come scontro tra culture differenti, segno di una
frattura insanabile”. Non dagli inizi, dal leghismo. Diciamo da trent’anni in
qua, da quando la condanna della Calabria fa testo.
Mimmo Nunnari, La Calabria spiegata agli italiani,
Rubbettino, pp. 197 € 15
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