Čechov si voleva
comico
In Russia si ride, anche.
Come altrove. Un po’ meno. O un po’ di più, con o senza vodka. Specie in Čechov, che stando alla testimonianza circostanziata di
Camilleri che apre la raccolta, le sue commedie intendeva propriamente commedie
e non drammi. Confermando un sospetto che pure balza evidente alla lettura, per
un tratto wildiano netto, di satira bonaria e partecipe, in tutta la sua opera
- eccettuato il reportage da medico
giornalista dalla colonia penale di Sakhalin. E per questo litigava spesso con
Stanislavskij, il regista.
Umoresca è un
genere musicale, Schumann e Dvoràk lo hanno praticato, un Lied scherzoso. Su
testo in versi o in prosa, e anche, come spesso per questo Čechov, in immagini,
qualcuna anche di sua mano. Storie sconclusionate, che preludono al teatro
europeo dell’assurdo del secondo Novecento, le vuole Carla Muschio, che le ha
scovate, le propone e le inquadra criticamente - lei non russista, e nemmeno
čechoviana, per prima in Italia, con una traduzione straordinariamente
vivace (non c’è più ordine nemmeno negli studi…). Tutto in realtà può confluire
nel teatro dell’assurdo, che è la condizione elementare dell’essere. Queste
prose di Čechov si segnalano perché già čechoviane, in nuce e per esteso, nelle tematiche e negli svolgimenti: gradevoli
e pensierose.
È Čechov fin
dagli inizi, anche in prose svelte come queste, scritte per motivi alimentari,
per aiutare la famiglia in difficoltà a Mosca mentre lui vi studiava la
medicina. Forse nella datazione di Vasio – i testi di questa raccolta non sono
datati - “la lenta metamorfosi di Čechov da scrittore faceto a scrittore serio
si compì tra il 1883 e il 1886”. Quando cioè prese a scrivere e a proporre
racconti seri agli editori, mentre ancora continuana a sfornare “Umoresche”,
un’attività avviata con varie riviste nel 1880, subito dopo l’arrivo a Mosca.
Ma comunque senza abbandonare il faceto, che è una sottolineatura di tutta la
scrittura čechoviana. Con molto latino, tutto bene intonato, sempre esattamente
compitato.
Un libro
prezioso, anche come oggetto. Di contenuti non eccezionali. Facezie, freddure,
lazzi, specie del mondo dello spettacolo e dell’avanspettacolo, il repertorio
consueto dei giornali satirici: non mancano il colmo dei colmi, il cornuto, e le gioie del matrimonio, compresa la suocera, attorno a “lei” spendacciona e
traditrice. Moralità, non tutte brillanti – le raccolte di facezie sono pericolose,
dal “Piovano Arlotto” in poi. Ma letture d’autore. Con giochi di parole. E
parole in libertà – “con la scusa che, dopo aver composto il testo, il
tipografo ha lasciato cadere a terra tutti i caratteri, le parole si sono
mescolate”. A tratti un documento. Della Russia in quegli anni. Di sé. Gli abbozzi teatrali si rileggono come un programma, le “Regole per la villeggiatura”, o la “Trrragedia terribilmente, spaventosamente disperata”, col suggerimento del vero impresario Lentovskij al Grande Autore: “Sfruttate i luoghi comuni, come fanno i vari Rocambole e i vari conti di Montecristo...”. Di una cucina comunque sofisticata, in ogni
senso: invenzione, scrittura, situazioni.
Curiosamente,
spesso altaniano: “Dopo pranzo ho pensato allo stato deplorevole dell’economia
europea. L’ho invitata al risparmio”. Un Coquelin, anche, molieresco: “La
nostra vita può essere paragonata a un folle che si trascina da sé a una
stazione di polizia e denuncia se stesso”.
Anton Čechov, Umoresche, Barta, pp. 224, ill. € 12
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