Si riedita tascabile la
traduzione vent’anni fa dell’intervista che il filosofo fece con “Der Spiegel”
nel 1966, con Georg Wolff e col direttore-editore del settimanale Rudolf
Augstein, a condizione che fosse pubblicata postuma. L’intervista, pubblicata
il 31 maggio 1976, subito dopo la morte del filosofo, viene qui presentata come
se fosse la spiegazione del nazismo di Heidegger. Così il settimanale tedesco
la presentava. Con un richiamo in copertina (la copertina era sulla “Paura della
scuola”, con un bambino perplesso): “Conversazione di Der Spiegel con Maritn Heidegger – Il Filosofo e il Terzo Reich”. Mentre
è importante semmai al contrario, perché questa spiegazione latita, anche a futura memoria. E anzi,
per chi sa leggere il gergo heideggeriano, è una sorta di attesa aurorale, di
velato richiamo alle armi – del tipo: abbiamo perso ma ci rifaremo.
L’intervista è preceduta, per
due terzi del libro, da un saggio di Alfredo Marini, “La politica di Heidegger”.
Articolato. Esauriente? No, perché il fatto è semplice: Heidegger era un
nazista, caratterialmente e politicamente. È la sua filosofia quindi che va
letta su questo presupposto, non viceversa. Marini legge l’impegno politico
alla luce dell’opera, e allora tutto è possibile – l’opera consta di 120 volumi,
almeno 120… Non è il solo, anzi la sua è la procedura corrente. Mentre l’impegno
politico è un fatto, e quindi è al contrario che la lettura dell’opera va
fatta. Poco importa che si nobiliti per conseguenza il nazismo, poco o molto - o, se c’è, è
inutile cancellarlo, fare finta di no.
Si finisce altrimenti con
Bourdieu, “L’ontologia politica di Martin Heidegger” (tradotto “Führer della
filosofia? L’ontologia…”), che fa di Heidegger un campione della
“dissimulazione”, volendo argomentare il contrario. Bourdieu critica chi
trascura l’autonomia dello “spazio filosofico” rispetto all’impegno politico.
Ma poi mostra come questi spazi Heidegger articoli nell’“ambiguità”, e non a
caso o per errore, ma per una precisa strategia di comunicazione. Ha dovuto, ma
di più voluto, atteggiarsi, per una sua propria idea del suo pensiero e del suo
spazio pubblico. Filosofata
peraltro, già da “Essere e tempo”, e poi in più luoghi. Il tacere dicendo
giustamente una parte costituiva del discorso. Fino poi a fare del silenzio la
scaturigine del linguaggio – come di fatto è. Distinguendo, certo, tra la reticenza,
il Verschweigen, e il passare sotto
silenzio, l’Erschweigen, il corpo fertile
del non detto. Uno che sapeva cosa voleva quando non voleva dire. Da qui allusioni, sottintesi, qui lo dico e qui lo nego,
affermazioni-distinzioni.
Ciò non gli ha impedito di “produrre” un “discorso filosofico”, indenne anche da condizionamenti politici o partitici, ma senza spiegare le strategie linguistiche, le ragioni del dire e non dire – non potevo, non era possibile, non ho avuto il coraggio, una qualsiasi ragione. In realtà Heidegger fino all’ultimo, all’intervista che ha voluto postuma con lo “Spiegel”, non ha disgiunto il “discorso filosofico” dall’impegno politico. Senza secondi fini, era così. Allo “Spiegel” dice: “(I francesi) quando cominciano a pensare parlano tedesco”. E l’intervista, sarebbe stato bene dirlo, era a domande concordate, e a testo rivisto. Non una conversazione estemporanea. Concordata su iniziativa e progetto di un giornalista, Georg Wolff, che era stato in guerra capitano delle SS, e poi agente dei servizi segreti federali.
Ciò non gli ha impedito di “produrre” un “discorso filosofico”, indenne anche da condizionamenti politici o partitici, ma senza spiegare le strategie linguistiche, le ragioni del dire e non dire – non potevo, non era possibile, non ho avuto il coraggio, una qualsiasi ragione. In realtà Heidegger fino all’ultimo, all’intervista che ha voluto postuma con lo “Spiegel”, non ha disgiunto il “discorso filosofico” dall’impegno politico. Senza secondi fini, era così. Allo “Spiegel” dice: “(I francesi) quando cominciano a pensare parlano tedesco”. E l’intervista, sarebbe stato bene dirlo, era a domande concordate, e a testo rivisto. Non una conversazione estemporanea. Concordata su iniziativa e progetto di un giornalista, Georg Wolff, che era stato in guerra capitano delle SS, e poi agente dei servizi segreti federali.
Marini, che si definische “heideggerista”,
scrive pensando tutto il contrario: Heidegger non era nazista. Anche recentemente,
un anno fa, sul “Corriere del Ticino”, ha ridotto lo scandalo dei “Quaderni
Neri” del filosofo a una bega editoriale: all’“incapacità” di Peter Trawny,
incaricato dell’edizione, che essendo stato per questo rimosso dall’incarico
(ma non si è dimesso?), si è vendicato. Ma Heidegger è stato antisemita. Come quattro
quinti dei tedeschi. A differenza dei quali, dopo, non ha avuto una parola di
cordoglio, una sola.
Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci potrà salvare,
Guanda, p. 169, ill. € 13
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