Riletto, avvicinandosi Caporetto,
di cui è l’apoteosi, è il Grande Romanzo della Grande Guerra, e anche del Novecento
– uno dei maggiori: un “Guerra e pace”, ne ha l’impianto. Solo andrebbe sfrondato della traduzione leziosa di
Fernanda Pivano, quasi vernacolare, un birignao presto sorpassato - gli Oscar,
che s’inaugurarono felicemente nel 1965, e inaugurarono il tascabile italiano,
con questo romanzo, vendendone in poche settimane 600 mila copie, potrebbero
fare lo sforzo.
Un romanzo non vitalistico,
come lo Hemingway successivo si vorrà: triste, quasi cupo. Evocativo,
eroicizzante, ma su sfondo di morte, onnipresente. Il vero romanzo della vera guerra, come sarà di Céline –
non altrettanto epocale come il “Viaggio” di quest’ultimo perché di autore non
maledetto? Subito il lettore viene immerso nell’insensatezza, nella confusione del
volontario straniero in un paese straniero, in una strategia e una tattica di
cui nessuno nulla sa. E ascende via via fino ai due culmini. Della storia d’amore
che si rivela inavvertito, e finisce nella morte, al parto - come di un Dio
invidioso che tronca la felicità con la morte, con due morti, del bambino che
deve nascere e della madre. E della
guerra che si conclude nella ritirata, e nelle fucilazioni ad arbitrio degli
sbandati - con “la freddezza e il controllo di se stessi degli italiani che sparano
e non sono sparati”. Quasi un
docu-romanzo, più che un’opera di stile, alla Céline, e per questo monumento
più vero nelle lettere del Novecento alla guerra vera.
Di
scrittura sempre nitida. Di tematiche antiche e profonde. È il romanzo, tra i tanti temi, dell’acqua - della
madre assente, della vita sfuggente: dei fiumi, dei laghi, delle pozzanghere e
gli abbeveratoi, della pioggia che è incessante. Le stagioni si succedono ma
nient’altro di esse è rilevato, non i colori, non gli odori o i colori, giusto
la pioggia. E della guerra solo morti si vedono, casuali, ordinarie.
Un
addio alla vita anche, seppure di un giovane ventenne, più che alle armi – dopo
sarà un’altra vita. Con strane riprese, trent’anni più tardi, e in clima
dittatoriale, nel “Dottor Živago”. Una storia di vinti: “Sei morto. Non sai nemmeno perché. Non hai avuto
mai il tempo d’imparare”. La guerra il protagonista rifiuta, con la ritirata,
ma senza colpa - né tarde professioni di antimilitarismo alla Barbusse, cui
Céline si ispirerà, che legge ma non apprezza. Senza disertare, che non è
possibile, ma sottrarsi sì.
Ernst Hemingway, Addio alle armi
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