mercoledì 13 settembre 2017

È di Hemingway il capolavoro della Grande Guerra

Riletto, avvicinandosi Caporetto, di cui è l’apoteosi, è il Grande Romanzo della Grande Guerra, e anche del Novecento – uno dei maggiori: un “Guerra e pace”, ne ha limpianto. Solo andrebbe sfrondato della traduzione leziosa di Fernanda Pivano, quasi vernacolare, un birignao presto sorpassato - gli Oscar, che s’inaugurarono felicemente nel 1965, e inaugurarono il tascabile italiano, con questo romanzo, vendendone in poche settimane 600 mila copie, potrebbero fare lo sforzo.
Un romanzo non vitalistico, come lo Hemingway successivo si vorrà: triste, quasi cupo. Evocativo, eroicizzante, ma su sfondo di morte, onnipresente. Il vero romanzo della vera guerra, come sarà di Céline – non altrettanto epocale come il “Viaggio” di quest’ultimo perché di autore non maledetto? Subito il lettore viene immerso nell’insensatezza, nella confusione del volontario straniero in un paese straniero, in una strategia e una tattica di cui nessuno nulla sa. E ascende via via fino ai due culmini. Della storia d’amore che si rivela inavvertito, e finisce nella morte, al parto - come di un Dio invidioso che tronca la felicità con la morte, con due morti, del bambino che deve nascere e della madre. E della guerra che si conclude nella ritirata, e nelle fucilazioni ad arbitrio degli sbandati - con “la freddezza e il controllo di se stessi degli italiani che sparano e non sono sparati”. Quasi un docu-romanzo, più che un’opera di stile, alla Céline, e per questo monumento più vero nelle lettere del Novecento alla guerra vera.
Di scrittura sempre nitida. Di tematiche antiche e profonde. È il romanzo, tra i tanti temi, dell’acqua - della madre assente, della vita sfuggente: dei fiumi, dei laghi, delle pozzanghere e gli abbeveratoi, della pioggia che è incessante. Le stagioni si succedono ma nient’altro di esse è rilevato, non i colori, non gli odori o i colori, giusto la pioggia. E della guerra solo morti si vedono, casuali, ordinarie.
Un addio alla vita anche, seppure di un giovane ventenne, più che alle armi – dopo sarà un’altra vita. Con strane riprese, trent’anni più tardi, e in clima dittatoriale, nel “Dottor Živago”. Una storia di vinti: “Sei morto. Non sai nemmeno perché. Non hai avuto mai il tempo d’imparare”. La guerra il protagonista rifiuta, con la ritirata, ma senza colpa - né tarde professioni di antimilitarismo alla Barbusse, cui Céline si ispirerà, che legge ma non apprezza. Senza disertare, che non è possibile, ma sottrarsi sì.
Ernst Hemingway, Addio alle armi


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