Catherine Malabou derridiana e anche
hegeliana, filosofa in cattedra alla Kingston University di Londra, stimola
Judith Butler, la filosofa americana “post.strutturalista”, sul corpo di Hegel nel dialogo della servitù,
tra padorone e servo, al centro della “Fenomeologia dello spirito” - “Una
lettura contemporanea della signoria e della servitù in Hegel” è il
sottotitolo. Del dialogo si pone al centro l’ultima risorse del padrone
asservito dal servo, la sfida “Che tu sia il mio corpo!”. Una cosa cioè
impossibile.
La sfida del padrone di Hegel
è irricevibile, il corpo è irriducibile. Ma Butler, delle due, non si arrende. Per
quante resistenze celi, per lei il corpo resta un mister, e sia pieno di
resistenze, allo stesso soggetto possessore, lo fa strumento, per quanto
recondito, di potere, anche se non si sa quale. Contentandosi del suo potere
livellatore – c’è anche questo: se il corpo del servo e quello del padrone pari
sono.
Entrambe prendono atto che
soggettività e corporeità non possono essere disgiunte. Ma del corpo non sanno
che farsene, ingombrante com’è. Come diceva già Cicerone qualche tempo fa,
“Tuscolane”, I, XXXIII, il corpo va oltre se stesso, e non solo per l’aspetto
fisico, la complessione, la figura: “È di grande importanza per l’anima essere
collocata in un corpo piuttosto che in un altro: poiché ci sono nel corpo molti
elementi che acuiscono la mente e molti che la ottundono”. La confusione
comincia col corpo. Nietzsche, che la post-strutturalista ben conosce, lo
diceva: “Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro”.
Le due filosofe ne discitono
tra femminsite, o post. Anni luce dal primissimo post-1968, che esordì nel 1970
con uno “Sputiamo su Hegel”, per mano di Carla Lonzi. Ma da non mistiche e,
evidentemenmyte, senza neanche Nietzsche. Al fondo, senza neanche il “genere”.
Catherine Malabou, Judith
Butler, Che tu sia il mio corpo,
Mimesis, pp. 120 € 10
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