“The Outsider” è un racconto
di Lovecaft, che Colin Wilson ha letto, amato e studiato molto - di cui dirà in
“La filosofia degli assassini”: Blake, Nietzsche e Lovecraft “furono outsider
solitari!” – alla p. 151 dell’edizione italiana, per un legame tra
“frustrazione creativa e violenza”. Gli outsider impazziscono, come Nietzsche.
Si arruolano, come T.E.Lawrence, soldato semplice. Nijinski butta la moglie dalla
scala, Van Gogh vuole ucciderfe Gauguin. La frustarzione è tanto più diffusa e
spessa nella società industriale, che tratta gli uomini come numeri e
ingranaggi. E dunque, ora, tutti outsider?
Del suo primo editore italiano,
Roberto Lerici, racconta Antonio Giusti in “Memorie scompagnate” a proposito di
Wilson: dopo Calogero, il poeta d’avanguardia calabrese, e Pizzuto, il questore
dalla sintassi rivoltata, “fu la volta di Colin Wilson, un inglese del Galles
fissato con i delitti di Jack lo Squaratore, di cui pretendeva aver scoerto
tutto, anche l’identità. Ne aveva ricavato un romanzo a cavallo tra la cronaca
e la fantasia e intanto abitava in aperta campagna in una capanna sospesa ai
rami di un albero. Perlomeno così mi raccontò Roberto”.
Che dirne? È un cult, è un classico. Ma nonce arduo da
tradurre, l’outsider è, in questa parusia di Colin Wilson, difficile da
concettualizzare. Se non come la rilettura di una serie di grandi autori. Almeno
una cinquantina sono riletti in questa ottica, ma non si capisce quale. Se non
quella ottocentesca dell’antifilisteismo. Di chi sa che il mondo è complesso e
bugiardo, e che la vita va cercata altrove.
Angry young men
All’uscita, ai primi del
1956, in contemporanea con l’andata in scena di John Osborne, il libro e
l’autore ebbero un’accoglienza fervida. J.B.Pristley inventò per Wilson e
Osborne il nome generazionale di “angry youmg men”, i giovani arrabbiati. “The
Outsider” fu lettissimo, in tutto il mondo – in Italia fu proposto da Lerici
nel 1958, col titolo “Lo straniero”, anche se ripeteva Camus, tradotto da Aldo
Rosselli e Enzo Siciliano. Si dirà pure che influenzò gli anni Sessanta e quindi
lo spartiacque Sessantotto. Riletto, scorre sempre agevole, ma non si vede
verso che sbocco. Altro che l’autore è uno inquieto – il vero autore, uno che
ha qualcosa da dire.
Colin Wilson ci ha costruito
sopra, per le riedizioni del decennale e del ventennale, un romanzo. Ne ebbe la visione la
notte di Natale del 1954, solo in un seminterato fuori Londra, nella pausa del
lavoro come lavapiatti, dopo aver cenato con pomodoro in conserva e bacon
fritto. Riaprì il volumnoso diario che veniva compilando e, dice vent’anni dpo,
“mi colpì che ero nella posizione di molti dei miei personaggi preferiti nei
romanzi: il Raskolnikov di Dostoevskij, il Malte Laurids Brigge di Rilke, il
giovane scrittore di Hamsun, «Fame»”. Girò pagina, e scrisse in cima “Note per
un libro «L’Outsider» nella letteratura”. Ne scrisse una scaletta di due
pagine. Dormì. E due giorni dopo, alla riapertura del British Musem, il suo
studio di scrittura, come lo era stato di Marx, scrisse in pochi mesi le quattrocento
pagine del libro. L’editore Gollancz, cui lo mandò a caso, decise in un paio di
giorni di pubblicarlo subito. Quando il libro uscì, lunedì 26 maggio 1956, era
stato letto in bozze da grandi e influenti letterati, che ne avevano fato recensioni
entusiaste.
È possibile. Con un che di
falso, o che suona falso: implausibile. Quando ebbe l’illuminazione Colin
Wilson era di soli 23 anni, ma aveva licenziato il suo primo romanzo. Che aveva
mandato in lettura a Angus Wilson, nientemeno, critico principe, che si si era
detto onorato dell’invio. Il romanzo di “un
assassino basato su Jack lo Squartatore”, personaggio che lo terrà occupato per
numerose opere successive – diceva bene Lerici a Giusti. Quando scivolerà
sensibilmente verso l’esoterico e il soprannaturale. Era di famiglia operaia,
ma era già sposato. E non dà l’impressione di letture superficiali dei pur
troppi autori che cita: sarà stato un lavapiatti ma colto. In grado di
“sistemare” molti grandi nomi, e con poche faglie – le rapidissime letture sono,
quelle accertabili, accurate.
Un voyeur
Ma chi è l’outsider? L’illuminazione
è venuta a Wilson leggendo un romanzo-racconto di Henri Barbusse, il primo,
“L’enfer”, il cui protagonista, senza nome, vive vicario, osservando la vita
degli altri, dal buco della serratura, per la strada, sul tram, e questo lo
riempie di passione, anzi solo lo smuove. Wilson fa grande caso di questo
Barbusse a inizio di trattazione, l’outsider
quindi delineando al contrario, come colui che non addenta la vita, astenendosi,
sotto illusioni e confusioni. L’innominato di Barbusse “è un Outsider”, dice
Wilson, “perché sta per la Verità”, contro la società. Mah.
Non è tutto. L’outsider è al
punto di giunzione tra la scimmia e l’uomo: “La scimmia e l’uomo esistono in un
solo corpo; e quando i desideri della scimmia stanno pe realizzarsi, essa
scompare ed è sostituita dall’uomo, che è disgustato dagli appetiti
scimmieschi”. È l’artista? “L’outsider può essere un artista, ma l’artista non
è necessariamente un outsider” - è l’antiborghese, quello che una volta si
diceva l’antifilisteo. Uno un po’ sprezzante, occhio di lince che penetra la cortina
della non-esistenza – che “un disprezzo” nutre “swiftiano” (ma senza “la minima
traccia di insania”). Uno che non si trova a suo agio nella “normalità” – esclusa
quella delle sinossi modeste con cui l’autore compila il volume. Ben scritto,
certo. Ma con la domanda fondamentale, “che cos’è la Realtà?, non risposta. Se
non che l’outsider la considera “senza esitazioni, vuota, stupida, e miope”. Un
visionario: Colin Wilson già si avvia su quella strada, verso Gurdijeff,
Ramakrishna, Uspenskij. È quello che fa muovere la storia, possiamo dire per risolvere
il nodo, scuotendola. Ma sarà?
C’è l’outsider
esistenzialista. Il primo a essere trattato, con Kierkegard, Camus, Sartre,
Hemingway – su sfondo ancora di Barbusse. Poi l’outsider romantico: il giovane
Werther di Goethe, con Schiller, Wiliam Morris, e Joyce (Joyce?). Poi tanti
altri. Fino a quello spiritualista. Solo se ne può dire che non è un ribelle, ma uno che si vuole altro da
se stesso. Uno che esce dalla “normalità” – dall’uso, dal quotidiano, dall’ananke: la critica e la sfida. Cioè
tutti gli artisti, prosatori compresi, di ogni genere? E gli imprenditori no,
fino al negoziante al minuto e, a maggior ragione, l’ambulante? E perché no gli
atleti e i divi, comprese le starlette, sopra e fuori del tappeto rosso?
L’outsider è quello che si
chiede: chi sono io? E si risponde con una domanda: chi voglio essere?
Qui è chiaro, è lui stesso, Colin
Wilson, che la notte di Natale del 1954 fantastica di ritirarsi in un basement di periferia, da lavapiatti di giorno, e svegliarsi
diciotto mesi dopo celebre e autorevole. L’eroe – l’outsider è un eroe – è se
stesso, quale è venuto a essere, a rappresentare, alla metà degli anni 1950.
Hemingway è Sartre
Le pezze d’appoggio sono
numerose e robuste. La lista è lunga degli autori analizzati, più o meno congruenti
con l’assunto – sempre che ce ne sia uno. Molto H.G.Wells, il suo ultimo bereve
saggio, “Mind at the End of its Tether”, oltre a Barbusse, molto Hemingway,
Nietsche, T.E.Lawrence, Nijinski, Van Gogh, William James, Dostoevskij, Sartre,
“La nausea”, e Camus, “Lo straniero”. E un George Fox come “punto di partenza” con
Barbusse, il fondatore dei quaccheri nel Seicento.
È molto e quindi nulla: questo
outsider resta una categoria inapplicabile. Tanto più oggi che outsider, parola e figura, tende a confondersi con outcast, emarginato e quasi reietto. “L’attitudine fondamentale dell’outsider:
la non accettazione della vita, della vita umana vissuta da esseri umani in una
società umana”, confligge con le estese riletture che il voume propone. Di
autori e personaggi al contrario vitalissimi. L’outsider è in realtà il
contrario: quello che vede molte cose che non vanno e le combatte, per il semplice
fatto di scriverne, di denunciarle. È “l’unico capace di vedere”, dice ancora
Wilson. Che però porterebbe al niente, perché quello che vede è il niente. O
allora, modestamente, quello che è insodisfatto della realtà che ha di fronte.
Come tutti – chi è contento alzi la mano. E che dà battaglia, oppure rinuncia.
Come avviene nel più vasto mondo, tertium
non datur. Non riunciatario, poiché ne scrive e se ne tormenta. Ma è un
insoddisfato che si soddisfa dell’insoddisfazione. È una sorta di operatore
dela mente. È l’élite.
Il poscritto del decennale
lo dichiara: è la “minoranza dominante”, che Wilson stabilisce nel 5 per cento.
E all’interno del 5 per cento una minoranza più ristretta: è quello che resta
togliendo dal 5 per cento “gli altri tipi dominanti – soldati, politici,
imprenditori, sportivi, attori, religiosi, e così via – e cioè quelli il cui
dominio non è intellettuale”. Dopodiché ci sarebbe da chiedersi chi è
intellettuale: solo l’artista? Ma meno male che sono pochi: “Il mondo moderno
(ccontemporaneo, n.d.r.) non fornisce sbocchi a una larga fetta della minoranza
dominante – un secolo fa c’era un centinaio di modi con cui una persona
dominante poteva esprimersi”.
Qui si potrebbe fornire a
Wilson una patente di indovino, per le “figure dominant” del millennio,
ristrette dalla globalizzazione. Sarebbe troppo. È per qusto, insiste Wilson, insisteva
sesant’anni fa, che aumentano i crimini, il teppismo giovanile, le disabilità
mentali, i suicidi: “L’uomo non esiste
ancora,. è ancora un semplice
animale”. E la camera oscura lo prova: una persona chiusa in un ambiente
totalmente buio e insonoro “va a pezzi in un giorno o giù di lì… La sua mente è totalmente dipenndete dal
mondo esterno, da stimuli esterini”.
Un libro arrabbiato certamente,
anche se non si capisce a che fine. La vera sorpresa che propone è il enorme
successo all’uscita e la considerazione duratura di cui gode. Anche se, attraverso
questa confusa figura molte associazioni più o meno stravaganti si propongono. Di
Hemingway con Sartre per esempio, chi ci avrebbe pensato. O con Camus. È così
che il libro si fa leggere: è la rilettura di un centinaio di libri con sano impeto
viitalistico.
Colin Wilson, L’outsider, Atlantide, pp. 400 € 35
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