Arrivati
al dunque, in Catalogna, gli interessi si mettono in salvo. Il leghismo è di
facciata, una pratica promozionale, per vendere un’unità in più.
Una
promozione odiosa, che si potrebbe facilmente contrastare comprando un’unità in meno. Ma non avviene: la prepotenza
paga. È l’effetto peggiore del leghismo, l’induzione alla subordinazione.
“Se
non siamo gangster non ci considerano”, riflette lo scrittore newyorchese Gay Talese
alla vigilia del Columbus Day, la festa annuale degli italoamericani – una festa
turbata quest’anno dal proposito del correttismo americano di eliminare ogni
ricordo di Colombo. Considerare è la parola giusta: tenere in conto, temere
anche. È la potenza del male? È un modo di essere dell’opinione pubblica, che
si conforma sugli esiti forti, anche cattivi e malvagi.
Colombo
non è uno sterminatore. Né uno sfruttatore. È un uomo intelligente e
coraggioso. Ma l’America corretta trova comodo prendersela con lui, evitando di
mettere in causa gli sterminatori di indiani nell’Ottocento, o i negrieri del
Cinque-Seicento, i veri artefici della “conquista”. Perché così ragiona un certo razzismo, del
Nord e del Sud, e Colombo è uno del Sud, italiano, cattolico, con navi
spagnole.
Pierluigi Panza con le sue ricerche, e
la mostra a Roma a palazzo Braschi documentano un Piranesi attivissimo mercante
di antichità che scavava e trafugava anche personalmente. A metà Settecento, malgrado
le bolle papali interdicessero la vendita dei reperti. “Piranesi si è
arricchito sopra 100 mila scudi”, calcolava sdegnato l’architetto Vanvitelli. Che
era napoletano – certo, di origine olandese. Piranesi era veneziano.
Il dialetto come
lingua
Non ci sono molti film sulla Calabria,
una dozzina, più o meno, e forse per questo il film di Jonas Carpignano, “A
ciambra”, dopo il non fortunato “Mediterranea” (lo ha proiettato solo Nanni
Moretti a Roma, ma solo per un paio di giorni, non ne esiste nemmeno il dvd,
che pure si fa di tutto), si staglia monumentale. Un film sul nulla, la vita
quotidiana di un ladruncolo della tribù degli Amato stanziata al fiume Petrace,
tra la marina di Gioia Tauro e quella di Palmi. Ma robusto, e anche memorabile,
per all’uso – la capacità di uso – estensivo del dialetto nelle sue forme caratteristiche: ellissi, affermativa-interrogativa, pausa,
Questa soprattutto. Il film è parlato in dialetto stretto, non adattato a una
pronuncia italianizzata, come è l’uso nei film, per una comprensione allargata.
Filologicamente sempre accurato, nella dizione e nello spirito, quella dei rom più contratta degli “italiani”
(i mafiosi) - maniacale, si direbbe, nella precisione linguistica, e anche
glottologica. Accurato pure figurativamente: non c’è corporatura, atteggiamento,
gesto, passo, sguardo, segno di qualsiasi tipo, fuori posto, tutto vero. Nella
stessa naturalezza rientra lo slittamento periodico all’italiano, in forma di ripetizione
retorica in traduzione, o per una maggiore comprensione tra i dialoganti,
soprattutto a suggello di un impegno, un accordo.
Non c’è un trattato sugli zingari
sedentarizzati, che sarebbe invece interessante, oltre che utile. Né c’è, dopo Rohlfs,
nessun ragionamento sui dialetti: la natura, l’estensione, il senso, la capacità
(specificità) comunicativa. Molto senso del non detto, pause e omissioni, molto
potendosi dare per inteso, è il privilegio e la prigione dei nuclei chiusi, del
clan – la tribù del tempo di Colin Turbull mezzo secolo fa, “Il popolo della
montagna”. Lo scherzo sempre, l’ironia, il gioco, anche crudele.
Il film di Carpignano ha indubbiamente
un forte carica identitaria. In senso proprio, come la parola si intende oggi,
su fondo razziale se non razzista: esclusiva, armata – alla maniera degli Ik di
Turnbull, vendicatori cupi affaccendati.
Ma poi, per comunicare, la lingua è necessaria. Nel film si passa alla lingua
per slittamento inavvertito, ma sempre a
suggello - di una promessa, un patto, un’intesa.
Il dialetto non è una corazza. È la lingua
dell’essere, e il primo vincolo di socievolezza. Ma necessario, comunque utile,
a favorire un’integrazione più vasta, in un quadro sociale più vasto che non
quello tribale, nazionale, internazionale. Essere venuti al mondo senza una
nicchia consente la stessa esperienza e forse una migliore? È possibile. Ma per
chi viene da un gruppo chiuso non c’è altra possibilità di espressione se non il
linguaggio del gruppo.
Liggio alla Rai
Camilleri
ha un aneddoto, fra i tanti di “Esercizi di memoria”, su Luciano Liggio che
dall’ergastolo fa chiedere un incontro per commissionargli uno sceneggiato sulle
sue imprese, garantendogli novità importanti sui tanti delitti per cui è
condannato – verità scomode taciute nei processi. Camilleri, elettrizzato, accetta
l’incontro, ma dice all’intermediario che difficilmente la Rai programmerà un
tale sceneggiato. In attesa trepido della convocazione, passano due settimane.
Infine l’intermediario si rifà vivo ma per dire: “Luciano è desolato di averle
fatto perdere del tempo, ma si è informato e ha avuto una risposta negativa”.
Sbalordimento di Camilleri: “Scusi, su cosa si è informato?” “Sull’eventualità
da lei accennata che la Rai non accettasse uno sceneggiato su di lui, e ha avuto
la conferma del suo dubbio, la Rai non lo trasmetterebbe”. Liggio alla Rai ci
arrivava prima.
Nani e fate
Mark
Twain, in crociera nel 1867, arriva alle due di notte allo Stretto di Messina,
d’inverno, ma “il chiaro di luna”, scrive, “era così brillante che l’Italia da
un lato e la Sicilia dall’altro si vedevano così distintamente come se non
fossero separate che dalla larghezza di una strada”.
Messina,
cittadona oggi informe, di passaggio per il traffico col continente, Twain dice
fiabesca: “La città di Messina, di un bianco di latte, stellata e scintillante di
lampioni, era uno spettacolo fatato”.
A
Istanbul invece ha un ricordo repentino: “C’è un’enormità di nani in tutta
l’Italia. Ma mi è sembrato che a Milano la messe fosse eccezionale”. Dopo aver
precisato: “Se volete dei nani – voglio dire, soltanto alcuni nani, per
curiosità – andate a Genova. Se volete acquistarli a dozzine per rivenderli al
dettaglio, andate a Milano”.
Napoli val bene
un pregiudizio
Due tratti caratteristici Mark Twain coglie
nel sua esplorazione del Mediterraneo, “Il viaggio degli innocenti”: “l’aria subdola
ma ossequiosa” degli innumerevoli postulanti, la crudeltà col cuore in mano. Fa
il caso di una recita straordinaria al San Carlo cui ha assistito, di migliaia
di persone che hanno pagato per spernacchiare una cantante, Frezzolini, un
tempo bella e brava, molto ammirata. che vuole in vecchiaia una serata d’addio,
E spernacchiandola si sono molto divertiti. “Uno spettacolo estremamente crudele,
impudico, impietoso”: “Ogni volta che quella donna cantava, fischiavano e
ridevano, il teatro tutto intero; e quando ha lasciato la scena, l’hanno
richiamata con applausi. E come si divertivano quei mascalzoni ben nati…”.
Una
curiosità Mark Twain aggiunge degna di nota. Spiega che il napoletano chiede
due volte il dovuto, e quando lo ha ottenuto chiede di più. E lo esemplifica con
un aneddoto probabilmente falso, molto napoletano. Un forestiero prende una
corsa in carrozza che cosa 50 centesimi. Per vedere l’effetto che fa, paga con
cinque lire. Il vetturino dice “no, no”, e rincara. Rincara fino ad arrivare a
7 lire, dopodiché chiede ancora di più. Il forestiero si fa ridare le 7 lire
per darne 10, ma poi si limita a dare una moneta da 50 centesimi. Al che il
vetturino ringrazia e chiede 2 centesimi di mancia “per una bevuta”.
Lo
scrittore chiude commentandosi: “Si può pensare che ho dei pregiudizi. Forse ne
ho. Mi vergognerei di non averne”. Napoli val bene un pregiudizio? Supera ogni logica.
leuzzi@antiit.eu
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