domenica 8 ottobre 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (341)

Giuseppe Leuzzi

Arrivati al dunque, in Catalogna, gli interessi si mettono in salvo. Il leghismo è di facciata, una pratica promozionale, per vendere un’unità in più.
Una promozione odiosa, che si potrebbe facilmente contrastare comprando un’unità in meno. Ma non avviene: la prepotenza paga. È l’effetto peggiore del leghismo, l’induzione alla subordinazione.

“Se non siamo gangster non ci considerano”, riflette lo scrittore newyorchese Gay Talese alla vigilia del Columbus Day, la festa annuale degli italoamericani – una festa turbata quest’anno dal proposito del correttismo americano di eliminare ogni ricordo di Colombo. Considerare è la parola giusta: tenere in conto, temere anche. È la potenza del male? È un modo di essere dell’opinione pubblica, che si conforma sugli esiti forti, anche cattivi e malvagi.

Colombo non è uno sterminatore. Né uno sfruttatore. È un uomo intelligente e coraggioso. Ma l’America corretta trova comodo prendersela con lui, evitando di mettere in causa gli sterminatori di indiani nell’Ottocento, o i negrieri del Cinque-Seicento, i veri artefici della “conquista”.  Perché così ragiona un certo razzismo, del Nord e del Sud, e Colombo è uno del Sud, italiano, cattolico, con navi spagnole.

Pierluigi Panza con le sue ricerche, e la mostra a Roma a palazzo Braschi documentano un Piranesi attivissimo mercante di antichità che scavava e trafugava anche personalmente. A metà Settecento, malgrado le bolle papali interdicessero la vendita dei reperti. “Piranesi si è arricchito sopra 100 mila scudi”, calcolava sdegnato l’architetto Vanvitelli. Che era napoletano – certo, di origine olandese. Piranesi era veneziano.

Il dialetto come lingua
Non ci sono molti film sulla Calabria, una dozzina, più o meno, e forse per questo il film di Jonas Carpignano, “A ciambra”, dopo il non fortunato “Mediterranea” (lo ha proiettato solo Nanni Moretti a Roma, ma solo per un paio di giorni, non ne esiste nemmeno il dvd, che pure si fa di tutto), si staglia monumentale. Un film sul nulla, la vita quotidiana di un ladruncolo della tribù degli Amato stanziata al fiume Petrace, tra la marina di Gioia Tauro e quella di Palmi. Ma robusto, e anche memorabile, per all’uso – la capacità di uso – estensivo del dialetto nelle sue forme caratteristiche:  ellissi, affermativa-interrogativa, pausa, Questa soprattutto. Il film è parlato in dialetto stretto, non adattato a una pronuncia italianizzata, come è l’uso nei film, per una comprensione allargata. Filologicamente sempre accurato, nella dizione e nello spirito,  quella dei rom più contratta degli “italiani” (i mafiosi) - maniacale, si direbbe, nella precisione linguistica, e anche glottologica. Accurato pure figurativamente: non c’è corporatura, atteggiamento, gesto, passo, sguardo, segno di qualsiasi tipo, fuori posto, tutto vero. Nella stessa naturalezza rientra lo slittamento periodico all’italiano, in forma di ripetizione retorica in traduzione, o per una maggiore comprensione tra i dialoganti, soprattutto a suggello di un impegno, un accordo.
Non c’è un trattato sugli zingari sedentarizzati, che sarebbe invece interessante, oltre che utile. Né c’è, dopo Rohlfs, nessun ragionamento sui dialetti: la natura, l’estensione, il senso, la capacità (specificità) comunicativa. Molto senso del non detto, pause e omissioni, molto potendosi dare per inteso, è il privilegio e la prigione dei nuclei chiusi, del clan – la tribù del tempo di Colin Turbull mezzo secolo fa, “Il popolo della montagna”. Lo scherzo sempre, l’ironia, il gioco, anche crudele.
Il film di Carpignano ha indubbiamente un forte carica identitaria. In senso proprio, come la parola si intende oggi, su fondo razziale se non razzista: esclusiva, armata – alla maniera degli Ik di Turnbull,  vendicatori cupi affaccendati. Ma poi, per comunicare, la lingua è necessaria. Nel film si passa alla lingua per  slittamento inavvertito, ma sempre a suggello - di una promessa, un patto, un’intesa.
Il dialetto non è una corazza. È la lingua dell’essere, e il primo vincolo di socievolezza. Ma necessario, comunque utile, a favorire un’integrazione più vasta, in un quadro sociale più vasto che non quello tribale, nazionale, internazionale. Essere venuti al mondo senza una nicchia consente la stessa esperienza e forse una migliore? È possibile. Ma per chi viene da un gruppo chiuso non c’è altra possibilità di espressione se non il linguaggio del gruppo.

Liggio alla Rai
Camilleri ha un aneddoto, fra i tanti di “Esercizi di memoria”, su Luciano Liggio che dall’ergastolo fa chiedere un incontro per commissionargli uno sceneggiato sulle sue imprese, garantendogli novità importanti sui tanti delitti per cui è condannato – verità scomode taciute nei processi. Camilleri, elettrizzato, accetta l’incontro, ma dice all’intermediario che difficilmente la Rai programmerà un tale sceneggiato. In attesa trepido della convocazione, passano due settimane. Infine l’intermediario si rifà vivo ma per dire: “Luciano è desolato di averle fatto perdere del tempo, ma si è informato e ha avuto una risposta negativa”. Sbalordimento di Camilleri: “Scusi, su cosa si è informato?” “Sull’eventualità da lei accennata che la Rai non accettasse uno sceneggiato su di lui, e ha avuto la conferma del suo dubbio, la Rai non lo trasmetterebbe”. Liggio alla Rai ci arrivava prima.

Nani e fate
Mark Twain, in crociera nel 1867, arriva alle due di notte allo Stretto di Messina, d’inverno, ma “il chiaro di luna”, scrive, “era così brillante che l’Italia da un lato e la Sicilia dall’altro si vedevano così distintamente come se non fossero separate che dalla larghezza di una strada”.
Messina, cittadona oggi informe, di passaggio per il traffico col continente, Twain dice fiabesca: “La città di Messina, di un bianco di latte, stellata e scintillante di lampioni, era uno spettacolo fatato”.
A Istanbul invece ha un ricordo repentino: “C’è un’enormità di nani in tutta l’Italia. Ma mi è sembrato che a Milano la messe fosse eccezionale”. Dopo aver precisato: “Se volete dei nani – voglio dire, soltanto alcuni nani, per curiosità – andate a Genova. Se volete acquistarli a dozzine per rivenderli al dettaglio, andate a Milano”.

Napoli val bene un pregiudizio
 Due tratti caratteristici Mark Twain coglie nel sua esplorazione del Mediterraneo, “Il viaggio degli innocenti”: “l’aria subdola ma ossequiosa” degli innumerevoli postulanti, la crudeltà col cuore in mano. Fa il caso di una recita straordinaria al San Carlo cui ha assistito, di migliaia di persone che hanno pagato per spernacchiare una cantante, Frezzolini, un tempo bella e brava, molto ammirata. che vuole in vecchiaia una serata d’addio, E spernacchiandola si sono molto divertiti. “Uno spettacolo estremamente crudele, impudico, impietoso”: “Ogni volta che quella donna cantava, fischiavano e ridevano, il teatro tutto intero; e quando ha lasciato la scena, l’hanno richiamata con applausi. E come si divertivano quei mascalzoni ben nati…”.
Una curiosità Mark Twain aggiunge degna di nota. Spiega che il napoletano chiede due volte il dovuto, e quando lo ha ottenuto chiede di più. E lo esemplifica con un aneddoto probabilmente falso, molto napoletano. Un forestiero prende una corsa in carrozza che cosa 50 centesimi. Per vedere l’effetto che fa, paga con cinque lire. Il vetturino dice “no, no”, e rincara. Rincara fino ad arrivare a 7 lire, dopodiché chiede ancora di più. Il forestiero si fa ridare le 7 lire per darne 10, ma poi si limita a dare una moneta da 50 centesimi. Al che il vetturino ringrazia e chiede 2 centesimi di mancia “per una bevuta”.
Lo scrittore chiude commentandosi: “Si può pensare che ho dei pregiudizi. Forse ne ho. Mi vergognerei di non averne”. 
Napoli val bene un pregiudizio? Supera ogni logica.

leuzzi@antiit.eu

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