Minuzioso, prolisso, vantone,
il future maresciallo Rommel pubblicava nel 1937 le sue memorie di Guerra
14-18. Sei campagne a cui aveva preso parte, come sottotenente e poi tenente di
truppe wuerttemburghesi, di fanteria e poi alpine, in Belgio e attorno a
Calais, nelle Argonne, in Romania, nei Carpazi, a
Tolmino (Caporetto), e al Tagliamento. Lo stile è simile
a quello di Junio Valerio Borghese, “Decima Flottiglia MAS”, che però veniva
pubblicato a ridosso della sconfitta, nel 1950 presso Grazanti, e si leggeva
come un libro di avventure. Qui il revanscismo è in ogni riga.
Per il resto è un po’ ridicolo. Nessuna menzione del Piave: nella sconfitta Rommel “non c’era”. Come “non ci sarà” alla disfatta della Germania hitleriana, benché da lui propiziata. Dapprima in Africa, la prima battaglia persa dalla Germania di Hitler dopo tre anni di trionfi. E poi in quella definitiva, al Vallo Atlantico in Normandia – dove non c’era nel senso proprio: nei giorni dello sbarco il comndante in capo del Vallo era a Berlino al compleanno della moglie.
Per il resto è un po’ ridicolo. Nessuna menzione del Piave: nella sconfitta Rommel “non c’era”. Come “non ci sarà” alla disfatta della Germania hitleriana, benché da lui propiziata. Dapprima in Africa, la prima battaglia persa dalla Germania di Hitler dopo tre anni di trionfi. E poi in quella definitiva, al Vallo Atlantico in Normandia – dove non c’era nel senso proprio: nei giorni dello sbarco il comndante in capo del Vallo era a Berlino al compleanno della moglie.
Rommel, va
ricordato, era il Silla di Jünger,
quello che avrebbe salvato la “res publica” germanica, e per questo si sarebbe suicidato dopo l’attentato
fallito del 20 luglio 1944. Ma si suicidò tre mesi dopo l’attentato fallito. Ed
era stato comandante della guardia di Hitler, in virtù della pubblicazione di
questo libro. Meritandosi in quella posizione la promozione anticipata a
generale.
Un libro che si segnala per
il trionfalismo: è come se la Germania avesse vinto la guerra che stava perdendo.
Un best-seller quando uscì, in clima hitleriano. Che riconfermava la
convinzione profonda che la Grande Guerra era stata perduta per il “colpo alla
schiena”, il tradimento dei democratici. Dimenticato per questo revanscismo nella
Germania federale, vi è stato riedito due anni fa, nel ritrovato trionfalismo.
Il generale Fabio Mini, collaboratore
di “la Repubblica”, “l’Espresso” e “Il Fatto quotidiano”, lo ha rieditato in
italiano per farne un “guerriero asimmetrico”, cioè un rivoluzionario. Ma il
maresciallo non era un uomo di idee: era un carrierista e un uomo d’ordine. Era anche razzista, ma questo è il meno.
La
gloria di Rommel si fa ascendere a un’azione di guerriglia il 9 novembre 1917,
quando da solo prese Longarone e novemila italiani prigionieri. Così l’ha
raccontata, anche qui, agli astuti teutoni e storici britannici. Ma un po’
anche prima: col suo plotone, una trentina di uomini, e poi con la sua
compagnia, un centinaio, sempre piomba sul nemico soverchiante, per
quattrocento lunghe pagine, e lo immobilizza.
A
Longarone si appropriò anche di un titolo di nobiltà, l’unico che poté vantare: alla tomba della
famiglia Molino, pretese di aver trovato gli antenati della moglie Lucie Maria
Mollin, emigrati sette secoli prima. Ma l’eroico maresciallo disprezzava
l’Italia.
Erwin Rommel, Fanteria d’attacco. Dal fronte occidentale
a Caporetto, Libreria Editrice Goriziana, pp. 427, ill. € 20
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