Bombe a Milano – Piazza Fontana
ebbe un precedente. Su cui Camilleri ritorna in “Esercizi di memoria” per il
ruolo che vi ebbe un suo parente commissario di Polizia, Carmelo Camilleri, il
modello, dice, di Montalbano. Il precedente così Astolfo narrava dieci anni fa,
nel romanzo del Sessantotto, “La gioia del giorno”, a seguire alle bombe di
Piazza Fontana:
“Nel 1928 una bomba a Milano fece diciotto
morti, uno più di piazza Fontana, e una quarantina di feriti. Scoppiò sul
piazzale Giulio Cesare, all’ingresso della Fiera Campionaria, il 12 aprile poco
prima dell’arrivo del re, che doveva inaugurarla. Altri due attentati, con
bombe identiche, erano stati sventati a cadenza il 9 e il 6 dello stesso mese,
senza però che fosse rafforzato l’apparato di vigilanza. Su polizia, polizia
politica, milizia e carabinieri vigilava autorevole il federale milanese del
partito Fascista Giampaoli, un fattorino del telefono che nel 1913 era stato in
carcere per rapina in danno di una donna anziana. Gli arresti per la bomba alla
Fiera furono 560, fra anarchici, socialisti, comunisti e repubblicani.
“La Procura di Milano si dedicò tutta al
caso. Anche Roma: il Tri-bunale Speciale aprì un’indagine, il quadrunviro
Bianchi, sottosegretario all’Interno, in persona interrogò alcuni degli
arrestati. Questo per alcuni giorni. Il caso andò poi in letargo: i giornali
ebbero l’ordine di non occu-parsene più. Fino all’ottobre del 1930, quando
furono arrestati gli antifa-scisti di Giustizia e Libertà, denunciati da un
Giuseppe Forti, alias Carletti, nomi di battaglia di Carlo Del Re, un avvocato
friulano, lui stesso giellista. Del Re, perito fallimentare, s’era appropriato
cinquanta milioni di un fallimento per coprire una perdita al poker. Per
rimediare chiese aiuto a Balbo, confessandosi militante antifascista. “Ottimo”,
disse Balbo, e lo raccomandò al capo della polizia Bocchini. L’avvocato
esercita ancora a Roma (reintegrato all’albo nel 1954, morirà nel 1978,
n.d.C.).
“I giornali ebbero indicazione di legare
gli arresti alla strage. Ma al processo l’attentato non fu evocato. Ci furono
anche allora un libertario suicida in carcere, un Carlo Maria Maggi, congegni
Roskof per bombe a tempo, che sono semplici orologi, e esperti per provare
l’improvabile. La storia riedita Ernesto Rossi, che nel 1958 la ricostruì in «Una
spia del regime». Maggi, che creò il Meneghino, lustro dei gesuiti a teatro a
San Fedele e Brera, nonché del lombardista Isella, è ricorso facile, ma non è
tutto. “Fu il più grave cruccio di Bocchini, si può dire fino alla morte, non
essere riuscito a vedere chiaro in questo tragico episodio”, attesta Guido Leto
ne «I libri segreti dell’Ovra», l’Opera Vigilanza Repressione Antifascista che
Mussolini volle sul modello sovietico dopo l’attacco a Giustizia e Libertà,
“egli non si stancò mai di stimolare i collaboratori affinché non trascurassero
nulla per far luce sull’attentato”. Arturo Bocchini fu Capo della polizia dal 1926
fino alla morte nel 1940.
“Un
funzionario della questura, Camillo Camilleri, aveva fornito agli arrestati,
dopo averle invano portate al Tribunale Speciale, le prove della loro
innocenza. Ma non tutti furono liberati: i comunisti Ludovichetti, Sarchi,
Testa, Vacchieri furono condannati, con Romolo Tranquilli, studente, fratello
di Secondino, “Ignazio Silone”, che morì
in carcere a Procida a fine 1932 per le sevizie. Leto era il capo dell’Ovra. Può
raccontarla perché il 25 luglio divenne antifascista, salvando dai tedeschi i
compagni del Pci. Come il capo dell’Ovra a Milano, il “dottor” Luca Ostèria,
marittimo genovese amico di Parri, di cui il presidente della Resistenza era
stato prigioniero, che poi se ne disse protettore contro i biechi tedeschi. Il
senatore commendator Bocchini condusse vita prodiga, specie con le donne, ma
ebbe fama d’integerrimo servitore dello Stato. Lesinava sui fondi segreti, in
uso libero senza giustificativo. Non diede tregua a Camilleri per aver
scagionato gli arrestati: lo licenziò e poi lo angariò per impedirgli di
lavorare. Fu destituito pure Giampaoli, insieme col questore, e inviato al
confino.
“A
Milano la bomba fu giudicata un’intimidazione fascista contro il re, per
accelerare la controfirma della riforma elettorale su cui aveva riserve. Non
escluso un fine sovversivo, secondo Camilleri: alcuni “eroi della rivoluzione”
fascista, repubblicani, avevano un piano in due punti: eliminare il re e la
corona, proclamare Mussolini capo dello Stato. Camilleri l’aveva saputo dal
brigadiere Crespi della questura, detto “Maciste”, che aveva informatori nel
Pnf. Si muore pure per niente”
Tutto
vero - eccetto il “Camillo”, che è invece Carmelo.
Camilleri aggiunge molti
particolari sul commissario, un cugino del padre, che lo scrittore ha sempre
chiamato zio, e che lo ospiterà a Roma nell’immediato dopoguerra per studiarvi
recitazione e regia. La prima indagine, ricorda Camilleri, fu affidata a un
colonnello dei Carabinieri esperto di esplosivi, il quale riferì che l’ordigno
(miscela, confezionamento, disposizione, nel basamento in ghisa di un fanale)
era opera di artificieri abili. Mussolini allora incaricò delle indagini il
capo manipolo della Polizia Ferroviaria, uno che aveva sventato un attentato al
treno dello stesso Mussolini, spiegandogli che gli autori erano da cercare tra
gli antifascisti, soprattutto tra i comunisti e gli anarchici. Parallelamente
indaga la Questura, dove opera il commissario Camilleri. Mentre si sparge la
voce che poco prima dell’attentato, nella caserma Carroccio della milizia
fascista una pallottola sfuggita casualmente da un moschetto ha ucciso due
militi e ne ha feriti gravemente altri tre. Per chiarire questo incidente Camilleri
fa perquisire un circolo fascista, l’Oberdan, frequentato dai “fascisti più
facinorosi e repubblicani di Milano”, fedelissimi del federale Mario Giampaoli.
E si persuade che l’“incidente” alla Carroccio è lo scoppio accidentale del resto
dell’esplosivo usato per la bomba alla Fiera. La Milizia Ferroviaria invece
arresta a Como Romolo Tranquilli, e poi altri cinque comunisti e
anarchici, che prontamente il Tribunale
speciale condanna a morte. A carico di Romolo viene addotta una piantina che
aveva in tasca, che la Milizia dice essere la piazza Giulio Cesare dell’attentato
alla Fiera. Camilleri spiega che la piantina è di una piazza di Como. E sulle
sue indagini scrive “un lungo rapporto al capo della Polizia Bocchini allegando
prove e documenti”. Bocchini fa leggere il rapporto a Mussolini. Che lo
commenta a margine: “Liquidate Camilleri”».
Camilleri “venne immediatamente
costretto a dimettersi dalla polizia”, e andò a lavorare da avvocato nello
studio di uno dei difensori dei sei imputati. Era “un fervente fascista”, che
“si era distinto per avere arrestato numerosi comunisti”, e per usare “metodi
bruschi e violenti, per cui ebbe a subire qualche richiamo dai suoi superiori”.
Destinato “a una brillante carriera”, cadde in depressione per la morte improvvisa
di una figlia, e “diventò quasi un peso per la polizia, tanto da subire tre
trasferimenti in tre anni”. Ma “l’attentato alla Fiera lo fece ritornare
l’acuto investigatore che era sempre stato”. Da avvocato “non sopportava l’idea
che sei innocenti”, sia pure dell’odiato partito Comunista, venissero fucilati
e gli autori della strage restassero impuniti, e “allora compì un atto
temerario: riuscì a fare arrivare al giornale comunista francese «L’Humanité»
la sua relazione con allegati gli atti probatori”. Scandalo. Mussolini commuta
le pene di morte in ergastoli. Camilleri è arrestato, processato al Tribunale Speciale
e condannato a cinque anni di confino. Scontato il confino, si stabilisce a
Roma ma non trova lavoro: “Per sopravvivere fece i più umili e vari mestieri,
tra l’altro per qualche tempo sopravvisse vendendo sputacchiere”. Dopo la guerra
fe reintegrato come vicequestore, con gli arretrati.
La bomba alla Fiera fu anche occasione per una retata di tutti gli oppositori laici del fascismo, che Camilleri non ricorda, prima che dei comunisti. A quegli oppositori Mussolini soprattutto mirava. Nell’occasione fu arrestato,
con la moglie, anche Giuseppe Rensi, il filosofo socialista già epurato dall’università
in quanto firmatario del Manifesto Croce nel 1925 contro il fascismo. Che poi
fu presto liberato per lo stratagemma di un amico. Emanuele Sella ne pubblicò
il necrologio affranto sul “Corriere della sera”, dandolo cioè per morto, e Mussolini
si spaventò: non si fidava dei suoi giannizzeri, e lo fece liberare subito. Una
storia molro camilleriana, che lo zio e Camilleri non ricordano.
Debito pubblico – Risale
all’unità: l’Italia unita nacque indebitata, pur avendo incamerato gli attivi
degli Stati annessi – sostanzioso quello del Regno di Napoli. Incamerò nel 1867
i beni della chiesa, e per qualche anno la finanza pubblica sembrò consolidarsi
- i bilanci lusinghieri che si attribuiscono alla destra, a Minghetti. La
manomorta fu poi alienata per niente, a beneficio della nascente famelica
borghesia, e lo Stato tornò in sofferenza.
Rommel – Il giorno dello sbarco il maresciallo
Rommel lasciò la Normandia per festeggiare a casa la moglie nel suo onomastico.
Erwin Rommel era una volpe, andava quindi di corsa. In altra cultura, meno
indulgente, si direbbe che scappava, non sapendo come tenere il fronte Nord
dopo aver perduto il Mediterraneo. La prima sconfitta della Germania, dopo tre
anni di vittorie.
Era
stato uomo di fiducia di Hitler, capo della sua guardia, e aveva dato ai
tedeschi nel 1937, ritornata la spocchia col boom economico e militare, l’idea che avessero vinto la guerra che
avevano perso. Aveva dato in “Fanteria d’attacco” l’idea che i sei fronti nei
quali aveva servito durante la Grande Guerra fossero stati da lui sbaragliati –
un successo di vendite colossale.
astolfo@antiit.eu
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