Maometto – È intrattabile. Inafferrabile perché è della
storia, per fatti e detti, e uomo del Libro, il profeta. Intrattabile anche di
fatto, e non solo per gli “infedeli”: lo storico che vi si avventurasse, sia
pure a fini agiografici, è passibile di interdetto mortale.
Militari Usa – Hanno sempre
avuto un ruolo politico nella più grande e più solida democrazia del mondo, quella
americana, a cominciare da Washington. Il generale Mattis ministro della
Difesa, il più solido ministro del volatile Trump, il ministro per la sicurezza
nazionale H.R. McMaster, e
il capo di gabinetto John Kelly, l’unico che sia riuscito finora a dare una
linea e un ruolo alla Casa Bianca dopo Obama, i generali al potere non sono una
novità.. Generali sono sempre stati al vertice politico degli Stati Uniti, alla
Casa bianca: il generale Zachary Taylor a metà Ottocento, il generale Franklin
Pierce qualche anno dopo, il comandante generale Ulysses Grant, e Esenhower un
secolo dopo. Che nel suo commiato dopo otto anni di presidenza, il 17 gennaio 1961, trasmesso per
radio e televisione, mise in guardia il “popolo americano” sull’invadenza del “complesso
militare-industriale”, l’intreccio di interessi fra industrie militari,
politici dei luoghi dove le fabbriche di armamenti operavano, e gerarchie delle
forze armate.
Fra
i tanti che sono stati ministri, chiamati per chiara fama, il più famoso è il
generale Marshall, organizzatore e stratega delle forze armate americane in
guerra, e poi come segretario di Stato (ministro degli Esteri), nel 1947, del
piano di ricostruzione dell’Europa che porta il suo nome. Fra i più recenti si
ricordano, con lo stesso incarico, il generale Alexander Haig, nominato dal
primo Reagan, e il generale Colin Powell segretario di Stato di Bush jr.
Roma – Già il filologo
classico Arnold J. Toynbee l’aveva cancellata dalla storia della civiltà, nel
lavoro ventennale in dieci volumi “A study of History”. Le civiltà di Toynbee
jr., al modo di Spengler, nascono da una “risposta” a una “sfida”, quella dell’ambiente
fisico e storico, e si articolano in una fase di sviluppo e una di decadenza.
Ne analizza una ventina - ventuno esattamente, con la “minoica”, che allora, prima
della decifrazione delle tavole d Cnosso, si pensava distinta da quella ellenica
- ma esclude che ce ne sia stata una romana. Ne ha una “andina”, una “yucateca”,
e una generica “di Estremo Oriente, figlia della giapponese”, ma non una romana.
Che dice nata morta nel quinto secolo a.C..Non al modo dei filosofi, di quelli
che dicono la vita una pausa tra il niente e il niente. Lo dice “storicamente” –
in antipatia a Gibbon, è vero. Nell’Europa occidentale la civiltà si sviluppa
dopo il 700 d.C. Prima ci fu solo una “civiltà ellenistica”. Il secolo di Augusto è una “raddrizzamento”, quello
degli Antonini una “estate di san Martino”. L’antipatia verso la capitale – che
pure è la città più amata dagli italiani, gli indicatori sono su questo concordi
– è di vecchia data.
Tribù – Ritorna il tribalismo, in
Catalogna, nel Lombardo-Veneto. Incerto, l’ordine essendo globale, ma puntiglioso.
Se ne osserva anche la materialità al cinema, se si va a vedere il film di Jonas
Carpignano “A ciambra”, su una tribù di zingari nei pressi di Gioia Tauro – la
vita quotidiana all’interno della tribù, e nelle sue relazioni all’esterno, con
gli “italiani” e con i “marocchini” (gli
africani), che anche loro si ritengono e si comportano come tribù: la tribù,
che divide, unisce.
La
storia si può anche dire storia di tribù, ristrette o larghe. L’identità di lingua e di cultura, una volta configurata, è indistruttibile,
imprime macchie indelebili, anche per il richiamo al sangue,
non stereotipo. La nazione è come
la foresta, organata, di varie specie o tribù, forme semplici il clan e la
famiglia.
Il
tribalismo è uscito dalla storia mezzo secolo fa, con la decolonizzazione. La
tribù essendo invasiva in Africa e nel sub-continente asiatico, e quindi
connotativa in contrasto con l’ordine globale, non in regola col politicamente
corretto - non si fanno affari in Africa e non si
governa se non per clan e tribù, la lingua è tribale, le iniziazioni, i segreti,
la tribù è vena viva, si attiva in ogni circostanza. Ma non è cancellato.
Mappe si possono ora produrre di molte etnie sulla difensiva qua e là in
Europa, il continente che si riteneva il più detribalizzato. Ma più che per il
fatto politico resta forte nella psicologia e nei comportamenti: nel
linguaggio, sia della lingua che della mentalità, nella socialità, nell’identità.
Molte
costanti si ritrovano intatte dai vecchi studi. La cosa non è
cattiva, e fa luce: Omero si scriveva in antico “per città”, Alessandria così
lo catalogava. Ma anche: ogni tribù è
nemica, specie se contigua.
La tribù nei fatti smantella la razza. È il
fatto tribale religioso che tormenta l’Irlanda, non quello etnico.
Ottantacinque musicisti in quindici generazioni di Bach non è un fatto di razza
teutonica, non c’è un Dna nazionale della musica, ma di ascendenze familiari. O
i Melani di Pistoia, sette musicisti su nove fratelli, dal maggiore Jacopo,
autore della “Tancia”, la prima opera buffa, al minore Alessandro, che musicò
il primo don Giovanni, “L’Empio pentito”. O i sette Scarlatti, sorelle,
fratelli, figli e nipoti di Alessandro.
Storicamente si può sostenere che il
razzismo nasce quando si conculca il tribalismo. Nasce nel 1492 in Spagna, dopo
la conversione imposta agli ebrei: non contando più la professione religiosa,
per distinguere gli ebrei si compilarono Libri Verdi sulla limpieza de
sangre.
Essendo
un fattore di divisione, la tribù può esserlo anche di soggezione. Un secolo e
mezzo fa al toscano Bandi il dialetto siciliano
pareva “africanissimo”, mentre i fratelli Visconti Venosta, in giro nel Regno
borbonico, erano presi per inglesi perché parlavano italiano. Negli studi di Tullio
De Mauro, il linguista morto ultimamente, un dialetto calabrolucano è più
distante da un dialetto lombardo che dal rumeno - un calabrolucano potrebbe,
quindi, trovarsi di casa a Bucarest?
In swahili tribù si dice cabila.
La storia è tribale. Lo era nella sintesi di
Margaret Mead, l’antropologa, ancora negli anni 1970: “Il 99 per cento del
tempo della storia umana lo abbiamo vissuto in tribù. Solo in tempo di guerra,
o al tempo nostro, in cui c’è l’equivalente psicologico della guerra, prevale
la famiglia nucleare, perché è l’unità più mobile, in grado di assicurare la
sopravvivenza della specie. Ma per il pieno sviluppo dello spirito umano
abbiamo bisogno di gruppi, le tribù”.
La tribù è un fatto e una logica: è via di
mezzo tra l’etnocentrismo, o assimilazione, e il relativismo culturale. Si lega
alla terra e al sangue, ma più alla storia, e smantella il conflitto quale si
configura oggi, tra Nord e Sud. Compreso il razzismo antirazzista di Sartre e
Frantz Fanon, che non si sa dove finisce - i peggiori nemici dei neri sono oggi
neri, in Congo, Nigeria, Liberia, Haiti, calabresi i peggiori nemici dei
calabresi.
Adottata da Londra come organo di governo
nelle colonie, con la “indirect rule”, la tribù si è data anche connotati
posticci, folkloristici: “Gli europei erano convinti che gli africani
appartenessero alle tribù”, spiega John Iliffe in “The Invention of Tradition”,
“gli africani costruirono le tribù cui appartenere”. Un po’ come oggi nel
Lombardo-Veneto, ma con più applicazione.
Ma lo storico del Tanganyika – oggi Tanzania - non può nascondere il fatto tribale.
astolfo@antiit.eu
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