mercoledì 18 ottobre 2017

Il mondo com'è (320)

astolfo

Maometto –  È intrattabile. Inafferrabile perché è della storia, per fatti e detti, e uomo del Libro, il profeta. Intrattabile anche di fatto, e non solo per gli “infedeli”: lo storico che vi si avventurasse, sia pure a fini agiografici, è passibile di interdetto mortale.

Militari Usa – Hanno sempre avuto un ruolo politico nella più grande e più solida democrazia del mondo, quella americana, a cominciare da Washington. Il generale Mattis ministro della Difesa, il più solido ministro del volatile Trump, il ministro per la sicurezza nazionale H.R. McMaster, e il capo di gabinetto John Kelly, l’unico che sia riuscito finora a dare una linea e un ruolo alla Casa Bianca dopo Obama, i generali al potere non sono una novità.. Generali sono sempre stati al vertice politico degli Stati Uniti, alla Casa bianca: il generale Zachary Taylor a metà Ottocento, il generale Franklin Pierce qualche anno dopo, il comandante generale Ulysses Grant, e Esenhower un secolo dopo. Che nel suo commiato dopo otto anni di presidenza, il 17 gennaio 1961, trasmesso per radio e televisione, mise in guardia il “popolo americano” sull’invadenza del “complesso militare-industriale”, l’intreccio di interessi fra industrie militari, politici dei luoghi dove le fabbriche di armamenti operavano, e gerarchie delle forze armate.
Fra i tanti che sono stati ministri, chiamati per chiara fama, il più famoso è il generale Marshall, organizzatore e stratega delle forze armate americane in guerra, e poi come segretario di Stato (ministro degli Esteri), nel 1947, del piano di ricostruzione dell’Europa che porta il suo nome. Fra i più recenti si ricordano, con lo stesso incarico, il generale Alexander Haig, nominato dal primo Reagan, e il generale Colin Powell segretario di Stato di Bush jr.

Roma – Già il filologo classico Arnold J. Toynbee l’aveva cancellata dalla storia della civiltà, nel lavoro ventennale in dieci volumi “A study of History”. Le civiltà di Toynbee jr., al modo di Spengler, nascono da una “risposta” a una “sfida”, quella dell’ambiente fisico e storico, e si articolano in una fase di sviluppo e una di decadenza. Ne analizza una ventina - ventuno esattamente, con la “minoica”, che allora, prima della decifrazione delle tavole d Cnosso, si pensava distinta da quella ellenica - ma esclude che ce ne sia stata una romana. Ne ha una “andina”, una “yucateca”, e una generica “di Estremo Oriente, figlia della giapponese”, ma non una romana. Che dice nata morta nel quinto secolo a.C..Non al modo dei filosofi, di quelli che dicono la vita una pausa tra il niente e il niente. Lo dice “storicamente” – in antipatia a Gibbon, è vero. Nell’Europa occidentale la civiltà si sviluppa dopo il 700 d.C. Prima ci fu solo una “civiltà ellenistica”. Il  secolo di Augusto è una “raddrizzamento”, quello degli Antonini una “estate di san Martino”. L’antipatia verso la capitale – che pure è la città più amata dagli italiani, gli indicatori sono su questo concordi – è di vecchia data.

Tribù – Ritorna il tribalismo, in Catalogna, nel Lombardo-Veneto. Incerto, l’ordine essendo globale, ma puntiglioso. Se ne osserva anche la materialità al cinema, se si va a vedere il film di Jonas Carpignano “A ciambra”, su una tribù di zingari nei pressi di Gioia Tauro – la vita quotidiana all’interno della tribù, e nelle sue relazioni all’esterno, con gli “italiani” e con i  “marocchini” (gli africani), che anche loro si ritengono e si comportano come tribù: la tribù, che divide, unisce.

La storia si può anche dire storia di tribù, ristrette o larghe. L’identità di lingua e di cultura, una volta configurata, è indistruttibile, imprime macchie indelebili, anche per il richiamo al sangue, non stereotipo. La nazione è come la foresta, organata, di varie specie o tribù, forme semplici il clan e la famiglia.
Il tribalismo è uscito dalla storia mezzo secolo fa, con la decolonizzazione. La tribù essendo invasiva in Africa e nel sub-continente asiatico, e quindi connotativa in contrasto con l’ordine globale, non in regola col politicamente corretto - non si fanno affari in Africa e non si governa se non per clan e tribù, la lingua è tribale, le iniziazioni, i segreti, la tribù è vena viva, si attiva in ogni circostanza. Ma non è cancellato. Mappe si possono ora produrre di molte etnie sulla difensiva qua e là in Europa, il continente che si riteneva il più detribalizzato. Ma più che per il fatto politico resta forte nella psicologia e nei comportamenti: nel linguaggio, sia della lingua che della mentalità, nella socialità, nell’identità.
Molte costanti si ritrovano intatte dai vecchi studi. La cosa non è cattiva, e fa luce: Omero si scriveva in antico “per città”, Alessandria così lo catalogava. Ma anche: ogni tribù è nemica, specie se contigua.

La tribù nei fatti smantella la razza. È il fatto tribale religioso che tormenta l’Irlanda, non quello etnico. Ottantacinque musicisti in quindici generazioni di Bach non è un fatto di razza teutonica, non c’è un Dna nazionale della musica, ma di ascendenze familiari. O i Melani di Pistoia, sette musicisti su nove fratelli, dal maggiore Jacopo, autore della “Tancia”, la prima opera buffa, al minore Alessandro, che musicò il primo don Giovanni, “L’Empio pentito”. O i sette Scarlatti, sorelle, fratelli, figli e nipoti di Alessandro.
Storicamente si può sostenere che il razzismo nasce quando si conculca il tribalismo. Nasce nel 1492 in Spagna, dopo la conversione imposta agli ebrei: non contando più la professione religiosa, per distinguere gli ebrei si compilarono Libri Verdi sulla limpieza de sangre.

Essendo un fattore di divisione, la tribù può esserlo anche di soggezione. Un secolo e mezzo fa al toscano Bandi il dialetto siciliano pareva “africanissimo”, mentre i fratelli Visconti Venosta, in giro nel Regno borbonico, erano presi per inglesi perché parlavano italiano. Negli studi di Tullio De Mauro, il linguista morto ultimamente, un dialetto calabrolucano è più distante da un dialetto lombardo che dal rumeno - un calabrolucano potrebbe, quindi, trovarsi di casa a Bucarest?

In swahili tribù si dice cabila.

La storia è tribale. Lo era nella sintesi di Margaret Mead, l’antropologa, ancora negli anni 1970: “Il 99 per cento del tempo della storia umana lo abbiamo vissuto in tribù. Solo in tempo di guerra, o al tempo nostro, in cui c’è l’equivalente psicologico della guerra, prevale la famiglia nucleare, perché è l’unità più mobile, in grado di assicurare la sopravvivenza della specie. Ma per il pieno sviluppo dello spirito umano abbiamo bisogno di gruppi, le tribù”.
La tribù è un fatto e una logica: è via di mezzo tra l’etnocentrismo, o assimilazione, e il relativismo culturale. Si lega alla terra e al sangue, ma più alla storia, e smantella il conflitto quale si configura oggi, tra Nord e Sud. Compreso il razzismo antirazzista di Sartre e Frantz Fanon, che non si sa dove finisce - i peggiori nemici dei neri sono oggi neri, in Congo, Nigeria, Liberia, Haiti, calabresi i peggiori nemici dei calabresi.

Adottata da Londra come organo di governo nelle colonie, con la “indirect rule”, la tribù si è data anche connotati posticci, folkloristici: “Gli europei erano convinti che gli africani appartenessero alle tribù”, spiega John Iliffe in “The Invention of Tradition”, “gli africani costruirono le tribù cui appartenere”. Un po’ come oggi nel Lombardo-Veneto, ma con più applicazione.
Ma lo storico del Tanganyika – oggi Tanzania - non può nascondere il fatto tribale.

astolfo@antiit.eu 

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