Un formidabile racconto,
benché senza trama e intessuto di vita quotidiana. E un – non involontario? –
trattato di antropologia dal vivo, sul campo: di una tribù di zingari
sedentari, degli “italiani”, degli africani
stagionali nella tendopoli tra Rosarno e San Ferdinando. Ripreso alla Abel
Ferrara, con primissimi piani, scuri, retroilluminati alla Caravaggio – bastano
poche immagini fisse, qua e là, per situare l’azione. Ma dominato dal fatto linguistico:
un uso sapiente dell’espressione sonora che caratterizza forse più che le
immagini. Per la varietà delle espressioni nell’apparente uniformità, tutte individualizzanti,
in ogni circostanza. Grazie all’uso – alla capacità di uso – estensivo del
dialetto nelle sue forme caratteristiche:
ellissi, affermative-interrogative, pause. Queste soprattuto: molto senso è nel
non detto, pause e omissioni, molto potendosi dare per inteso - è il privilegio
e la prigione dei nuclei chiusi, al modo degli Ik di Turnbull, “Il popolo della
montagna”, il classico degli studi tribali.
Un racconto denso, e molto
propositivo, di legami familiari, amicizia, abitudini, vizi, orizzonti
chiusi. Personaggi e aneddoti non si dimenticano, sebbene caratterizzati al
minimo, la cifra del racconto è l’understatement,
E un ancora più robusto documento antropologico, seppure in forma di
narrazione. Degli assetti familiari e tribali – gli Amato, gli “italiani” (i mafiosi),
i “marocchini” (gli africani). Delle relazioni reciproche. Dei linguaggi.
Il linguaggio parlato, in
aggiunta a quello visivo, è pregno – sono linguaggi finti poveri, più densi per
questo. Per un uso meticolosamente realista delle espressioni, anche ordinarie.
Fino alla cura degli accenti – come già fece Coppola nel “Padrino”, la parte
seconda: vibrazioni impercettibili fra espressioni apparentemente identiche segnalano
diversità sostanziali. Il dialetto di un posto non è quello dell’altro, per
quanto contiguo e anche mescolato - è la norma nelle società chiuse, di clan o tribù. O nello stesso posto di gruppi sociali
diversi, qui tra gli Amato e gli “italiani”.
Filologicamente corretto
anche nelle figurazioni: non c’è corporatura, camminata, espressione, posa, atteggiamento
fuori posto, tutto vero. Specialmente meticolosa, aderente, realista, la scelta
dei visi e le conformazioni fisiche. In una della decina di scene che
compongono il film, del protagonista, il ragazzo Pio, che si avventura a rubare
in casa di un “italiano”, questo viene inquadrato nelle foto sul comò in una
successione che è il racconto di una vita: ragazzo confidente, giovane curato, sposino
realizzato, uomo di panza di cui non vogliamo sapere, marito e padre diligente.
Il tutto è d’invenzione di Jonas
Carpignano, soggetto, sceneggiatura, e regia - produttore Scorsese. Ma non è un
film d’oriundo, le radici italiane di Carpignano sono sporadiche: niente
sentimentalismi. Di passione civile forse, ma senza melensaggini – al
politicamente corretto, anzi, il racconto può risultare razzista (probabilmente
per questo se ne parla poco, non è “corretto”). “A ciambra”, filamento,
rimasuglio, che si dice della carne in macelleria, il bordo nervoso o grasso
che si ritaglia da dare in pasto agli animali, o la striscia informe rimasta fuori dai buoni
tagli, è la borgata rom costruita lungo il Petrace, tra le marine di Gioia
Tauro e di Palmi. Da dove la famiglia Amato – tutti attori del film, una trentina
almeno di persone, in ruoli di varia incidenza, da Pio e la mamma matriarca
onnipresenti, al padre, il nonno, i fratelli e le sorelle, piccoli e grandi, i
nipoti. Zingari ladri, di elettricità e di rame, di macchine, nelle case, sui
treni, e della refurtiva di altri ladri. Indifferenti al valore del denaro,
dieci euro e novemila non fanno differenza. O ai telefonini, ai motorini, alle
machine, a ogni cosa. Al carcere. Alla sporcizia. Dopo “Il popolo della
montagna” si citerà “A ciambra”.
L’applicazione antropologica
si dispiega anche comparativamente. Al confronto inevitabile degli Amato con
gli “italiani”, e con i “marocchini”. L’accampamento degli africani stagionali
tra Rosarno e San Ferdinando è un altro mondo, diverso radicalmente. Benché
visto solo nel tempo libero, dela distenzione e la festa, è un mondo a sé, non
sottomesso, non piagnone. Senza perbenismo: le donne equivoche si divertono
come tutti. Senza vergogna: ognno è a suo modo curato e gode a divertirsi – è
l’Africa.
Il film riprende due
personaggi della prima opera di Carpignano due anni fa, “Mediterranea”, sugli africani
di Rosarno. Con le due figure centrali di Pio Amato, il ragazzo, e Ayva,
Khoudous Seihon, il nero che fa il ladro come il fratello di Pio ma vuole tirarsene
fuori.
Jonas Carpignano, A ciambra
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