martedì 10 ottobre 2017

La forza della tribù

Un formidabile racconto, benché senza trama e intessuto di vita quotidiana. E un – non involontario? – trattato di antropologia dal vivo, sul campo: di una tribù di zingari sedentari, degli “italiani”, degli africani stagionali nella tendopoli tra Rosarno e San Ferdinando. Ripreso alla Abel Ferrara, con primissimi piani, scuri, retroilluminati alla Caravaggio – bastano poche immagini fisse, qua e là, per situare l’azione. Ma dominato dal fatto linguistico: un uso sapiente dell’espressione sonora che caratterizza forse più che le immagini. Per la varietà delle espressioni nell’apparente uniformità, tutte individualizzanti, in ogni circostanza. Grazie all’uso – alla capacità di uso – estensivo del dialetto nelle sue forme caratteristiche: ellissi, affermative-interrogative, pause. Queste soprattuto: molto senso è nel non detto, pause e omissioni, molto potendosi dare per inteso - è il privilegio e la prigione dei nuclei chiusi, al modo degli Ik di Turnbull, “Il popolo della montagna”, il classico degli studi tribali.
Un racconto denso, e molto propositivo, di legami familiari, amicizia, abitudini, vizi, orizzonti chiusi. Personaggi e aneddoti non si dimenticano, sebbene caratterizzati al minimo, la cifra del racconto è l’understatement, E un ancora più robusto documento antropologico, seppure in forma di narrazione. Degli assetti familiari e tribali – gli Amato, gli “italiani” (i mafiosi), i “marocchini” (gli africani). Delle relazioni reciproche. Dei linguaggi.
Il linguaggio parlato, in aggiunta a quello visivo, è pregno – sono linguaggi finti poveri, più densi per questo. Per un uso meticolosamente realista delle espressioni, anche ordinarie. Fino alla cura degli accenti – come già fece Coppola nel “Padrino”, la parte seconda: vibrazioni impercettibili fra espressioni apparentemente identiche segnalano diversità sostanziali. Il dialetto di un posto non è quello dell’altro, per quanto contiguo e anche mescolato - è la norma nelle società chiuse, di clan o  tribù. O nello stesso posto di gruppi sociali diversi, qui tra gli Amato e gli “italiani”.
Filologicamente corretto anche nelle figurazioni: non c’è corporatura, camminata, espressione, posa, atteggiamento fuori posto, tutto vero. Specialmente meticolosa, aderente, realista, la scelta dei visi e le conformazioni fisiche. In una della decina di scene che compongono il film, del protagonista, il ragazzo Pio, che si avventura a rubare in casa di un “italiano”, questo viene inquadrato nelle foto sul comò in una successione che è il racconto di una vita: ragazzo confidente, giovane curato, sposino realizzato, uomo di panza di cui non vogliamo sapere, marito e padre diligente.
Il tutto è d’invenzione di Jonas Carpignano, soggetto, sceneggiatura, e regia - produttore Scorsese. Ma non è un film d’oriundo, le radici italiane di Carpignano sono sporadiche: niente sentimentalismi. Di passione civile forse, ma senza melensaggini – al politicamente corretto, anzi, il racconto può risultare razzista (probabilmente per questo se ne parla poco, non è “corretto”). “A ciambra”, filamento, rimasuglio, che si dice della carne in macelleria, il bordo nervoso o grasso che si ritaglia da dare in pasto agli animali, o la striscia informe rimasta fuori dai buoni tagli, è la borgata rom costruita lungo il Petrace, tra le marine di Gioia Tauro e di Palmi. Da dove la famiglia Amato – tutti attori del film, una trentina almeno di persone, in ruoli di varia incidenza, da Pio e la mamma matriarca onnipresenti, al padre, il nonno, i fratelli e le sorelle, piccoli e grandi, i nipoti. Zingari ladri, di elettricità e di rame, di macchine, nelle case, sui treni, e della refurtiva di altri ladri. Indifferenti al valore del denaro, dieci euro e novemila non fanno differenza. O ai telefonini, ai motorini, alle machine, a ogni cosa. Al carcere. Alla sporcizia. Dopo “Il popolo della montagna” si citerà “A ciambra”.
L’applicazione antropologica si dispiega anche comparativamente. Al confronto inevitabile degli Amato con gli “italiani”, e con i “marocchini”. L’accampamento degli africani stagionali tra Rosarno e San Ferdinando è un altro mondo, diverso radicalmente. Benché visto solo nel tempo libero, dela distenzione e la festa, è un mondo a sé, non sottomesso, non piagnone. Senza perbenismo: le donne equivoche si divertono come tutti. Senza vergogna: ognno è a suo modo curato e gode a divertirsi – è l’Africa.
Il film riprende due personaggi della prima opera di Carpignano due anni fa, “Mediterranea”, sugli africani di Rosarno. Con le due figure centrali di Pio Amato, il ragazzo, e Ayva, Khoudous Seihon, il nero che fa il ladro come il fratello di Pio ma vuole tirarsene fuori.
Jonas Carpignano, A ciambra

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