Singolare preveggenza di
Martin Albrow nel suo contributo, centrato sugli effetti della globalizzazione
negli Stati Uniti: rischia di avare, affermava, un effetto alienante
sull’identità americana. Trump non è menzionato naturalmente, ma era previsto.
La sfida è inedita, scriveva il sociologo politico britannico: nell’era globale
gli Stati Uniti sono identificati dal grande mondo con gli stessi loro valori,
avocandoseli. Per la prima volta nella storia, concludeva, gli Usa sono
appropriati da mondi altri. Come dire anche: una sfida a armi pari. Opure: il
mondo sfida l’America con le sue armi.
Non è la sola anticipazione:
la raccolta di saggi, preparata prima ma uscita dopo l’11 settembre, necessitava
di un aggioramento, e a questo I curatori hanno provveduto con la cateogia del
“terrorismo globale”: globale è anche il terrorismo, già nel 2000.
Non è una rassefna
rassicurate. E manca la globalizzazione dell’informazione attraverso internet e
i social media, ben più potente e impegnativa (dissolutiva?) del commercio e
della finanza.
C’è una filosofia della
gobalizaazione? C’è piuttosto un’ideologia: libero è bello. Ma anche una
filosofia, nel senso di razionalità: cosa è e cosa vuole la globalizzazione, l’ideologia
imperante del mrrcato. E tuttavia c’è, sottotraccia, una filosofia dietro il
concetto: che è forse troppo astrarre, poiché il concetto è storico – per lo
stesso motivo che i curatori rifiutano i discorsi della “fine” che il pensiero
unico in principio aveva tentato: “fine della geografia, della storia, della
modernità, della politica”. Ma giungono anche loro a una fine, la
globalizzazione, che è un fatto storico, recente, e già in crisi, assunto come
un riassetto epocale, e non politico – tattico, strategico. Un salto senza ritorno,
sembra di capire - come fu l’umanesimo nel Qattrocento, la scoperta nel
Cinquecento, la scienza nel Seicento, l’illuminismo nel Settecento, e il
romanticismo in una col nazionalismo dei primati nell’Ottocento, che si è
prolungato per tutto il Novecento al coperto delle ideologie risolutive e salvifiche?
Le “trasformazioni epocali” che i curatori adombrano, dei concetti base della
civiltà moderna e contemponea, sono discutibili.
Non è il solo punto critico. La
globalizzazione è fuori dell’Occidente, spiega Daniela Belliti. Ma è ben
occidenale: voluta e governata dall’Occidente, per un “suo” modo di essere, dei
bilanci aziendali e della finanza creativa.
È però vero che questi
concetti base sono intaccati e trasformati: la razionalità, il progetto, il
progresso – e si dovrebbe aggiungere la socialità.Non c’è più un razionale
agire weberiano, orientate allo scopo, garantito dal patto tra Stato e
individui che contemperi l’ordine politico e le soddisfazioni personali. C’è
una deregulation anarcodie, a favore del
più forte, un mercato si direbbe hobesiamo. Il controllo non è più possibile
che fondava l progetto: per la stessa deregulation, per la velcizzazione dei processi. L’idea di
progresso, peraltro già in crisi, viene del tutto delegittimata dai nuovi
milenarismi – i curator li prendono in senso positive, ma sono millenarismi,
“nucleari, ambientali, virali”.
La globalizzazione non è un
“mito”, certamente, è un fatto Ma niente di più: è un modio di essere (porsi)
del commercio internazionale. All’insegna del liberismo. Non nuovo: è l’applicazione
dei Navigation Act senza la Marina britannica. È lo scambio internazionale in
buona misura ricardiano, riportato alle regole di Ricardo del vantaggio
comparato, con l’abolizoone di dazi e contingenti.
Non risolve, ma non le jugula,
le esigenze di libertà e uguaglianza. Anzi
le raffoza. In tutta l’Asia immensa, e in America latina – Perù e Cile, lo stesso
Brasile, lo stesso Messico, e la in qualche modo anche la Colonbia e l’Argentina.
Né è da trascurare l’effetto
constantiano, del commerio migliore – più produttivo – della guerra. La
globalizzazione non è la pace universale, non si può presumere troppo, ma è
stata ed è una forte disinnescatrice dei conflitti armati. Anche sugli Stati,
come spiega nel suo saggio Saskia Sassen: l’effetto della globalizzazione è
ancipite, ne diluisce e insieme ne accresce (moltiplica) i poteri, regolatori e
di adempimento.
Più in generale, D’Andrea ne rileva
l’ambivalenza. Perr il “postulato moderno di una soggetività atutonoma e gelosa della propria individualità, capace
di decisione e di controllo sul mondo, che aderisce ora passivamente al
dilagante conformismo e all’omologazione di un pianeta attraversato da processi
di «macdonaldizzazione», salvo poi chiudersi nello spazio rassicurante delle
culture e delle appartenenze locali”. Un paradosso che Elena Pulcini scioglie negativamente:
la radicalizzazione patologica dell’Io postmoderno porta a crisi il legame sociale,
nel menre che lo ricostituisce in forme “regressive e distruttive”.
Questo è vero, ma lo era
prima della globalizzazione, e ne è indipendente – è la superfetazone degli individualism
(protagonismi) con la crisi delle ideologie, e la metastasi dell’informazione. .
Dimitri D’Andrea-Elena
Pulcini (a cura di), Filosofie della
globalizzazione, Ets, pp. 294 € 18
Nessun commento:
Posta un commento