lunedì 9 ottobre 2017

La globalizzazione oltre i suoi (de)meriti

Singolare preveggenza di Martin Albrow nel suo contributo, centrato sugli effetti della globalizzazione negli Stati Uniti: rischia di avare, affermava, un effetto alienante sull’identità americana. Trump non è menzionato naturalmente, ma era previsto. La sfida è inedita, scriveva il sociologo politico britannico: nell’era globale gli Stati Uniti sono identificati dal grande mondo con gli stessi loro valori, avocandoseli. Per la prima volta nella storia, concludeva, gli Usa sono appropriati da mondi altri. Come dire anche: una sfida a armi pari. Opure: il mondo sfida l’America con le sue armi.
Non è la sola anticipazione: la raccolta di saggi, preparata prima ma uscita dopo l’11 settembre, necessitava di un aggioramento, e a questo I curatori hanno provveduto con la cateogia del “terrorismo globale”: globale è anche il terrorismo, già nel 2000.
Non è una rassefna rassicurate. E manca la globalizzazione dell’informazione attraverso internet e i social media, ben più potente e impegnativa (dissolutiva?) del commercio e della finanza.
C’è una filosofia della gobalizaazione? C’è piuttosto un’ideologia: libero è bello. Ma anche una filosofia, nel senso di razionalità: cosa è e cosa vuole la globalizzazione, l’ideologia imperante del mrrcato. E tuttavia c’è, sottotraccia, una filosofia dietro il concetto: che è forse troppo astrarre, poiché il concetto è storico – per lo stesso motivo che i curatori rifiutano i discorsi della “fine” che il pensiero unico in principio aveva tentato: “fine della geografia, della storia, della modernità, della politica”. Ma giungono anche loro a una fine, la globalizzazione, che è un fatto storico, recente, e già in crisi, assunto come un riassetto epocale, e non politico – tattico, strategico. Un salto senza ritorno, sembra di capire - come fu l’umanesimo nel Qattrocento, la scoperta nel Cinquecento, la scienza nel Seicento, l’illuminismo nel Settecento, e il romanticismo in una col nazionalismo dei primati nell’Ottocento, che si è prolungato per tutto il Novecento al coperto delle ideologie risolutive e salvifiche? Le “trasformazioni epocali” che i curatori adombrano, dei concetti base della civiltà moderna e contemponea, sono discutibili.
Non è il solo punto critico. La globalizzazione è fuori dell’Occidente, spiega Daniela Belliti. Ma è ben occidenale: voluta e governata dall’Occidente, per un “suo” modo di essere, dei bilanci aziendali e della finanza creativa.
È però vero che questi concetti base sono intaccati e trasformati: la razionalità, il progetto, il progresso – e si dovrebbe aggiungere la socialità.Non c’è più un razionale agire weberiano, orientate allo scopo, garantito dal patto tra Stato e individui che contemperi l’ordine politico e le soddisfazioni personali. C’è una deregulation anarcodie, a favore del più forte, un mercato si direbbe hobesiamo. Il controllo non è più possibile che fondava l progetto: per la stessa deregulation,  per la velcizzazione dei processi. L’idea di progresso, peraltro già in crisi, viene del tutto delegittimata dai nuovi milenarismi – i curator li prendono in senso positive, ma sono millenarismi, “nucleari, ambientali, virali”.
La globalizzazione non è un “mito”, certamente, è un fatto Ma niente di più: è un modio di essere (porsi) del commercio internazionale. All’insegna del liberismo. Non nuovo: è l’applicazione dei Navigation Act senza la Marina britannica. È lo scambio internazionale in buona misura ricardiano, riportato alle regole di Ricardo del vantaggio comparato, con l’abolizoone di dazi e contingenti.
Non risolve, ma non le jugula, le esigenze  di libertà e uguaglianza. Anzi le raffoza. In tutta l’Asia immensa, e in America latina – Perù e Cile, lo stesso Brasile, lo stesso Messico, e la in qualche modo anche la Colonbia e l’Argentina.
Né è da trascurare l’effetto constantiano, del commerio migliore – più produttivo – della guerra. La globalizzazione non è la pace universale, non si può presumere troppo, ma è stata ed è una forte disinnescatrice dei conflitti armati. Anche sugli Stati, come spiega nel suo saggio Saskia Sassen: l’effetto della globalizzazione è ancipite, ne diluisce e insieme ne accresce (moltiplica) i poteri, regolatori e di adempimento.
Più in generale, D’Andrea ne rileva l’ambivalenza. Perr il “postulato moderno di una soggetività atutonoma e gelosa della propria individualità, capace di decisione e di controllo sul mondo, che aderisce ora passivamente al dilagante conformismo e all’omologazione di un pianeta attraversato da processi di «macdonaldizzazione», salvo poi chiudersi nello spazio rassicurante delle culture e delle appartenenze locali”. Un paradosso che Elena Pulcini scioglie negativamente: la radicalizzazione patologica dell’Io postmoderno porta a crisi il legame sociale, nel menre che lo ricostituisce in forme “regressive e distruttive”.
Questo è vero, ma lo era prima della globalizzazione, e ne è indipendente – è la superfetazone degli individualism (protagonismi) con la crisi delle ideologie, e la metastasi dell’informazione. .
Dimitri D’Andrea-Elena Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, Ets, pp. 294 € 18

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