La Francia è l’unico paese
che favorisce l’indipendenza degli altri popoli. Come a dire: ma non la sua. Quanto
la democrazia deve all’ingenuità del Necker,
del Mills (John Mills, il primo traduttore in francese della “Cyclopaedia
or an universal dictionary of arts and sciences”, ispiratore
della più celebere “Enciclipedia” illuminista)? Quanto il Terzo
Stato deve a Mirabeau, respinto dai nobili, e a Sieyès, respinto dal clero - con
Fouché, prefetto del collegio degli Oratoriani.
Un Manzoni pieno di sorprese,
ma impubblicabile. Perché non finito? Molto controcorrente nella sua epoca, gli
anni 1860. Ma poi anche dopo: è una critica della rivoluzione dell’Ottantanove.
Il curatore dell’unica edizione del saggio, nel 1940, intitolato “Storia incompiuta
della rivoluzione francese”, Gian Franco Grechi, doveva premettere: “L’Opera
qui pubblicata è una delle meno fortunate del Manzoni”. Ma per un motivo
preciso, che si può condividere anche in epoca non fascista, specie dopo il
riesame della rivoluzione stessa in occasione del bicentenario. Nuoce all’opera
“l’inequivocabilità del giudizio negativo” sula rivoluzione.
È una difficiltà che lo
stesso Manzoni si prospettava poco dopo l’inizio, seppure nella triplice
ipocrita negazione: “Non possiamo non preedere che questo scritto si troverà a
fronte d’opinioni contrarie”. Per lo stesso motivo forse non portava il saggio a
conclusione, benché ci abbia lavorato per una dozzina d’anni – o perché era tenue
il raffronto con la “rivoluzione italiana del 1859” del progetto originario (il
titolo di lavorazione è “”La rivoluzione francese del 1798 e la rivoluzione italiana del 1859.
Osservazioni comparative”), di cui si trovano tracce trascurabili. Lo
stesso curatore dice il titolo “Storia incompleta” un falso storico, poiché “non è
un lavoro propriamente storico”. E invece lo è. Anche fondato, non più scandaloso,
dopo le revisitazioni e gli approfondimenti con esito revisionistico di
François Furet per il bicenteneraio trent’anni fa.
È un libro datato. Il
revisionismo fu d’obbligo per gli high
tories alla Restaurazione – Chateuabriand aveva già un “Essai sur les
revolutions”. La revisione era anche generale nel movimento romantico. Manzoni provvederà tardi, ma ci pensava evidentemente da tempo,
accumulava materiali. Un po’ don Abbondio forse, non avendo il coraggio di esporsi,
lo farà al coperto della “rivoluzione italiana del 1859”, di cui poi si
dimentica. E tuttavia per tantissime cose ancora nuovo. Per i particolari di
varie vicende. E di più per gli aspetti costituzionali o giuridici, che la
rivoluzione calpestò liberamente. Sul concetto di legittimità, degli atti e delle
istituzioni. E su quello dei diritti, compreso quello di libertà. Nel suo
piccolo e praticamente inedito anticipando Rawls, e le basi etiche del diritto.
La storiografia di fine
Ottocento, primi del Novecento, concorde rifiutò l’opera alla sua prima fugace
apparizione nelle opereccomplete. Su base liberale. Salvemini e Omodeo la
ignorarono del tutto nelle loro storie della rivoluzione. Salvatorelli la cita
in tre righe nella “Storia del pensiero politico italiano dal 1700 al 1870”,
giusto per dirla “senile requisitoria legalistica”. Croce aveva giudicato “assurdo”
il giudizio in “termini giuridici” di una rivoluzione. Ma si fa leggere.
Tra i conservatori Manzoni era
e resta il più laico e democratico. Molto legato, anzi, alla democrazia, al di
là delle convenienze liberali, dei ceti proprietari. Tra i cattolici forse
neanche i più progressisti, Rosmini e Balbo, si spinsero come lui per la democrazia
pura e semplice, anche in questa incompiuta. Ed è “francese”, abbastanza per essere
considerato non sciovinista, non uno prevenuto. Lo era di formazione (studi,
frequentazioni) e di gusto. Ebbe e
mantenne buoni contatti dopo il ritorno da Parigi, scrisse in francese. E aveva
grande equilibrio politico, e capacità di analisi. I temi storici che solleva
nel saggio sono molti. La scusa dei tiranni. La servità volontaria. Gli
scalmanti spettatori dell’assembela del Terzo stato che diventano il “popolo”.
“L’arbitrio che usurpa un potere supremo, o crea un dispotismo o apre la strada
a una serie indefinite di altri arbitrii; e né l’uno né l’altro è libertà”.
Molto se ne potrebbe citare.
Molto e in dettaglio critica i
protagonisti occulti della rivoluzione, in più fasi: Mirabeau, Fouché, Bailly,
nonché “la metafisica dell’abate Sieyès”. Sono due dei maggiori latifondisti,
Noailles e d’Aguillon, che propongono l’abolizione di tutte le servitù. La
dichiarazione dei diritti in America è politica (parità fra i popoli, fra gli
Stati) in Francia è filosofica:”Quella di Filadelfia era una soluzione, quella
di Versailles, con le stesse parole, poneva il problema”.
Molta saggezza politica vi è
dispensata. Buona per conoscere meglio Manzoni, se non per la storia delle
idee. “Qualche volta le parole sono più difficili e intrattabili delle cose”. “L’antilogia
conduce facilmente all’antifrasi”, quando ci si agita troppo. “Nei tempi
moderni, e in un vasto Stato, la ragione d’essere del dispotismo non è in un
recinto fiancheggiato da torri e circondato da fosse, ma nelle circostanze che
dispongono gli animi a subirlo e qualche volta a desiderarne uno, per sottarsi
a uno peggiore o alla licenza. Che non è, come le definiscono molti, l’eccesso
della libertà, ma una pessima specie di sdspotismo: quello, cioè, dei
facinorosi sugli uomini onesti e pacifici”. “In tempi di rivoluzione (intendo
sempre una rivoluzione che distrugge un governo senza sostituirgliene un
altro), ogni atto politico non può che essere rivoluzionario, cioè il resultato
di una forza che prevalga, in un dato momento, indipendentemente da leggi o
istituzioni”.
Alessandro Manzoni, Storia della rivoluzione francese
Nessun commento:
Posta un commento