Dieci
anni dopo la visita di Putin a Riad, che sembrò e fu una forzatura, il re
saudita ha restituito al visita a Mosca. Colmandola di accordi economici –
anzitutto l’intesa per un rafforzamento del corso degli idrocarburi – e industriali.
Resta lo stallo nel rapporto politico, Putin essendo stretto alleato dell’Iran,
che è il primo nemico dell’Arabia Saudita. Ma la visita di re Salman è di fatto
il riconoscimento che in Siria, dove la rivolta anti-regime è stata promossa,
finanziata e armata dall’Arabia Saudita, la partita è persa, in favore di
Assad, Mosca e Teheran. In cambio probabilmente di un intervento dissuasivo di
Putin su Teheran per la guerra nello Yemen, dove Iran e Arabia Saudita si fronteggiano
direttamente, e non per formazioni militari protette.
C’è
un sovvertimento in atto in Medio Oriente rispetto agli assetti del lungo dopoguerra.
Anche se non se ne parla – se non marginalmente, come su questo sito:
Mosca
ha soppiantato l’influenza occidentale in Iran e in Siria, e si propone
amichevolmente in Nord Africa (Egitto e Libia) e nella penisolla arabica. Non
ha titoli finanziari né di mercato per soppiantare l’integrazione del Medio
Oriente nell’Occidente. E quelli militari usa con parsimonia – una guerra è per
la Russia un costo, a differenza che per gli Usa, dove si promuove e si vive
come una “opportunità”. Ma è il power
broker, ormai riconosciuto: il solo in grado di risolvere il problema del
riassetto della Siria, e della bomba in Iran ( nonché dei fragili equilibri in
Libano e Yemen, dove l’Iran è forte), e di favorire una stabilizzazione dei
prezzi degli idrocarburi, petrolio e gas naturale.
Il
ruolo russo è in questa fase – negli anni di Obama e ora con Trump - magnificato
dall’assenza dell’Occidente su tutti i fronti, perfino su quello arabo-israeliano.
Con l’eccezione possibilmente della Libia, ma qui per l’iniziativa italiana.
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