Lingua –
Dev’essere comune, condivisa ampiamente, altrimenti non significa. Si fanno
film in dialetto, due ore di dialetto, veloce, alla velocità del film –
Carpignano, Botrugno-Coluccini. Ma poi, per comunicare, si passa naturalmente all’italiano. Si comunica
solo in una lingua comune. Più stretto è il dialetto, che spesso è fatto di gestualità,
e di silenzi (pause, omissioni), più circoscritta la comunicazione, fino alla
mancanza di senso. Si può pensare al sardo come lingua veicolare. Ma in Sardegna.
E nemmeno, in quale parte delal Sardegna?
Si
diffonde per questo, nel revival dei dialetti, per esempio in ambito leghista,
lombardo-veneto, l’uso dell’inglese.
Morte – Con la
malattia, la povertà e la licenza, turbò Budda
e Schopenhauer, che fino ai vent’anni le avevano ignorate. L’esperienza assottiglia
la realtà? Ne disinnesca il terrore.
Il Duomo di Milano Stendhal trovava “un gotico senza l’idea della morte”.
Hitler
viene da lontano, le buone storie vogliono le cause remote. Ma non dal “Terzo Reich”
di Moeller van den Bruck, che è del ‘22 ma è antirazzista. Semmai dall’Impolitico
Mann di prima del ‘18, la cui divisa resta la “simpatia con la morte”, nel
mentre che moltiplicava figli e romanzi. Viene dalla religione della morte: non
la morte fisica attira i tedeschi ma la metafisica, nel mentre che si godono la
vita. La Lenora di Bürger il fidanzato morto torna a prendersela su invito
della donna, che infoiata vuole morire: “Il fuoco che mi arde, non c’è sacramento
che lo plachi”. Novalis amava di più Sofia se la pensava morta. Perfino il
limpido Heine paga tributo alla morte erotica, belles dames sans merci sono le sue donne dall’inizio alla fine,
dai “Traumbilder” alla “Mouche”, nel loro vampiristico Kosen, il pettegolìo. La morte è un fatto etnico?
Piacciono
morti in Germania perfino i bambini. Non solo al Rückert dei “Kindertotenlieder” di Mahler, che ne scrisse 428, anche
Goethe ha un padre che parla col figlio morto. Necrofilia e spregio della libertà,
“croce e sacrificio, sangue e morte” l’Impolitico Mann dice “il segno più certo
della germanicità”.
La
necrofilia teutonica è maschile, le poetesse l’amante lo vogliono in carne pure
in Germania. La morte è un fatto di genere?
Natura – È buona in
Fénelon, “Le avventure di Telemaco”, prima e meglio che in Rousseau – meglio,
cioè sensato e significativo, non romantico, cioè idealizzato. Nell’educazione
del duca di Borgona, futuro re di Francia, per il quale sono scritte le
“Avventure”, Fénelon individua il “buono naturale”, da estrarre da ogni
soggetto quale compito dell’educatore. Voleva costruire un’arte politica che si
opponesse al pessimismo, per lui cinico, di Machiavelli, della natura tendenzialmente
perversa del potere. Ma finisce per argomentarla con una citazione apocrifa di
Socrate, da lui inventata: “Una riforma generale di una repubblica mi sembra
infine impossibile, tanto sono sfiduciato del genere umano”.
Il
“buono naturale” è singolo: principesco, regale.
Provvidenza – È
sorprendente? Anche. Per esempio nell’incontro fra Scalfari e il papa
argentino.
È
ordinata e sorprendente anche in Manzoni. È tale, involontariamente, nel
“Discorso sulla storia universale” di Bossuet che l’ha generata, ne ha generato
il filone. Dove “tutto è sorprendente” nelle cause particolari della storia.
Che poi, cause “apparenti”, si ritrovano in buon ordine nella causa “vera”,
agli “ordini segreti della Divina Provvidenza”. Segreti, cioè imponderabili, e
imprevedibili.
Realtà – È percezione? La
percezione è tutto, fa i sensi e anche la cosa percepita? Ma è un rapporto. È
necessariamente la percezione di qualcosa: un oggetto, una qualità, una
sensazione. Che può modulare, e anche inventare, ma allora con riferimento a
altro analogo, anche semplicemente immaginario.
È
bipartita? Percezione e oggetto? Percezione e cosa diventano realtà peraltro
nel linguaggio: la cosa non è inventata – non esiste – se non è detta. E in
forma comunicabile, condivisa. La realtà è quindi tripartita – e un po’ anche quadripartita,
dovendo il linguaggio essere condivisibile, traducibile.
Ricordo – È esclusione: ricordare
è escludere. Fissare anche, ma per eliminazione.
Funziona,
sembra funzionare, al contrario: il ricordo è una rete che raccoglie - la
messe, il pescato, la serie di dati, che galleggiano - nella superficie remota
e anche nel fondo. Ma è inevitabilmente selettiva, un rete coi buchi.: La
memoria degli stessi dati, fatti, eventi è diversa nelle diverse occasioni, all’ingrosso
e al minuto.
Storia – “Il racconto
dei fatti dati per veri” è la celebre definizione che apre l’articolo “Storia”
del “Dizionario filosofico” di Voltaire – testo ripreso da quello già scritto
per l’“Enciclopedia”. Semplice, ma non come sembra. Voltaire stesso inquadra la
sua definizione con due corollari. Bisogna distinguere la storia dalla “favola”
- miracoli, prodigi, leggende: un fatto dato per vero non lo è necessariamente.
Nelle “Osservazioni sulla storia”, 1742, aveva chiesto allo storico di “fare
uso della sua ragione più che della memoria”: “Ciò che manca d’ordinario a quelli
che compilano la storia è lo spirito filosofico. La maggior parte, invece di
discutere dei fatti con degli uomini, fanno dei racconti ai bambini”.
Fuori
dal tempo e dallo spazio l’hanno concepita i suoi primi teorici francesi,
Fénelon e Bossuet. Entrambi established,
anzi embedded con la corte. In
armonia ma in opposizione col pessimismo di Descartes, che lo spirito umano
dice portare in sé il suo cattivo genio.
Opera
di un Dio ingannatore, secondo Descartes – se ne desume dalla prima
“Meditazione”. Che ci ha lasciato per questo il libero arbitrio: ci ha lasciati
liberi di sbagliare.
Non
è effetto o costrutto della memoria. Che come la testimonianza, compresa quella
oculare, è fallace, seppure inconsapevolmente. È certificazione di dati. Anche
di testimonianze ma allora incrociate. E ricostruzioni, se non esulano dalle
pietre di fondazione.
È
beninteso racconto, ma certificato.
zeulig@antiit.eu
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