Complotto – È una forma
giuridica, quindi definita, per una tipologia criminale che richiede una concertazione:
corruzione, estorsione, traffici illeciti (droga, azzardo, contrabbando),
controllo del mercato (quote, prezzi, appalti). È l’associazione a delinquere.
Una forma giuridica che, come tutte le forme giuridiche, tende a estendersi indistintamente,
se non definita e vigilata.
La
legislazione tende ad ampliarla, ma come lavandosene le mani. Generalizzandosi,
infatti, la forma diventata indistinguibile e “improbabile” – i processi da
qualche tempo, dopo la prima novità, tendono a restringerne la portata.
È
la psicosi del complotto che porta allo svuotamento del diritto, della forma
giuridica? Ma dopo che il diritto ha stabilizzato la psicosi. È stato il
problema in particolare dell’antimafia, e ora è dell’anticorruzione: le norme indistinte
diventano inapplicabili, esse stesse parte del problema criminale, del
“complotto” o associazione.
Conoscenza – Rafforza
l’ignoranza nel mentre che la aggredisce. È una sorta di scultura del non
finito, insieme confusa e precisa, attorno al corpaccione della realtà. Una
gulliveriana, nelle vesti dei lillipuziani che si affaccendano sul gigantesco
Gulliver. Gigantesco in rapporto alla loro piccolezza di formichine.
Contemporaneo – Si vuole di un
classico, a suo maggiore onore, che sia sempre attuale, in ogni epoca e a ogni
latitudine. Mentre forse la specificità è miglior titolo. Nel quadro magari di
una questione generale sempre viva - la giustizia, la fedeltà, la passione (o
la spassionatezza), ogni nostra
questione aperta. Una soluzione originale, e adeguata allo scopo. Che non può
essere sempre e ovunque uguale.
Fatto – “Scartiamo
tutti i fatti!”: quando Rousseau avvia l’indagine sull’origine
dell’ineguaglianza, parte con questo proclama. Dopodiché, con sciolta
dialettica, deduce ciò che ha dovuto
essere.
Morte -
“La morte e la bellezza sono due cose
profonde\ che contengono tanta ombra e tanto cielo da dirsi\ due sorelle
ugualmente terribili e feconde\ che dividono lo stesso enigma e il segreto”,
secondo Victor Hugo. Che però sa che non è vero – si è guardato dal vivere in
conformità, sfuggiva la sofferenza. Se non nel senso di Borges: “La bellezza è
fatalità più che la morte”. Von Platen l’aveva
già detto, ma in senso opposto: “Chi guarda la bellezza con gli occhi si è già
consegnato alla morte”.
È tema
(materia) che non si esorcizza, per quanti “voli pindarici” vi si possano fantasticare
sopra. La morte è reale.
Nudo –
A lungo si privilegiò nei simboli cristiani
l’Incarnazione rispetto alla Morte, fino al Rinascimento, che per questo è
pieno di dipinti osceni della Madonna col Bambino. E nella teologia
dell’Umanesimo, il secolo che preparò la Riforma – che la chiesa si fece poi
cancellare dalla polemica luterana. Il corpo non mente. Si dice, ed è vero: tutto
nella materia rinvia all’immateriale.
Michelangelo
combinò l’una nell’altra, la vita e la morte. Senza turpitudine: il primo
significato teologico del nudo è l’origine, la creazione. Nell’aspetto d’amore
e innocenza che si associa al momento seminale, sia nel creatore che nel
creato. Di una volontà che si perfeziona generando fragilità e vulnerabilità.
Questo per i cristiani, che san Girolamo vuole “nudi a seguire il Cristo nudo”.
Ma
c’è un che di compiaciuto, in questo amore di se stessi indifesi, e la cosa è
sospetta.
Progresso - Si
procede stando immobili. Si vive bene se si sta qui ora. Si diventa immortali,
almeno prima che morte non sopraggiunga - e si fa buona storia. Ma non
coinvolti, non del tutto: è l’esserci e il non esserci di Amleto. Che vive il
presente, e anche il futuro – lo presuppone.
È tema di Jünger, che quella del proscritto,
del latitante, è la condizione per eccellenza dell’uomo.
Reale –
È la ratio dell’evento. Del destino,
ora impronunciabile - ci sia una coppia di Barcellona che decide di festeggiare
l’anniversario di matrimonio da soli, senza i figli, di festeggiarlo a Firenze,
città che amano, nei pressi di Santa Croce, il loro monumento affettivo, e una
mattina, mentre ci passano davanti, lui decide di entrare un momento per una
sua particolare devozione, e mentre attinge con le dita al fonte battesimale
per segnarsi con l’acqua benedetta è colpito in pieno da un cornicione staccatosi
a trenta metri di altezza, da un a struttura appena restaurata, questo è un
evento e non il destino.
“Il mondo e la vita sono uno”, Wittgenstein
stabilisce. E: “Io sono il mio mondo” - o stabilisce che “il mondo è
indipendente dalla mia volontà”? Spinoza deve averlo pensato - che avrebbe
vissuto opportunamente un secolo dopo nella Polonia hassidica, invece che a
smerigliare occhiali per tristi calvinisti, la quale estraeva Dio da ogni
aspetto della vita, la danza inclusa, e il vino, rimediando al terribilismo inetto
della Bibbia. Al coperto l’ha detto: “L’uomo genera Dio tra le ombre”.
Wittgenstein
ha l’agilità del ninja, ora c’è ora non più, ombra molto reale, e contro
l’irriverente Popper si ridusse a brandire attizzatoi, come un personaggio di
Jack London.
Wittgenstein
aveva problemi a descrivere l’aroma del caffè. Problemi non di parole ma di
contorni, di delimitare i confini della cosa. Che vuol dire stabilire delle
regole. Sarebbe scavare sabbia, spiega Bateson, perché i contorni ci vincono:
mentre delimitano la cosa, la occultano. E finisce, conclude arguto Contardo
Calligaris, che la cornice conta più del quadro. Senza contare che mettere in
cornice si fa, nei ritratti e in letteratura, per i defunti. Bene, Marx avrebbe
detto rovesciamento della cosa. Wittgenstein nella sua prima
incarnazione pensò di avere dissolto la filo-sofia, la sua inclusa. Per questo
si mise a fare il geometra, e il maestro rurale. È per questo che è simpatico,
a uno così non si può obiettare niente.
È più spesso una fuga dal reale reale,
che resta la morte.
Quello
storico è alla decadenza e alla morte. Non si parlava mai della morte, non in
letteratura, neppure nelle trincee, o nei lager,
e sembrava buona norma, ora si fa con diletto. La crisi è coltivata, è l’ansia del
ricco per l’erosione delle rendite: pesa più degli infarti, i tumori, gli
incidenti, le epidemie. Non per carità, al contrario, è buttare il modo infetto
addosso all’interlocutore, una cosa da untori. Il destino è anche sociale, e
delle epoche storiche: sembra che, cessando il bisogno, si sia perduto il
giudizio, e ogni stimolo al lavoro ben fatto. Le formazioni sociali sono vuote,
e non per mancanza di volontà, è come cantare col naso. Di tale banalizzazione
sono specchio la letteratura e la filosofia, gonfie di falsità: melasse,
concettismi, oltraggi, tutto coltivato e insulso.
Sospetto – È la cultura
dell’Occidente: l’interrogazione, ma non ingenua. Nella scienza come nella
filosofia: si invera l’esito scagliando anatemi. C’è un bisogno di sospettare.
A fini conoscitivi, ma anche
(auto)distruttivi. E quindi terapeutico o debilitativo?
Non
è una questione di misura – di dove e come fermare il dubbio. È di impianto:
indagare per abbattere (astio, odio, per quanto giustificato), magari
divertendosi, o premiando il proprio ingegno, oppure per individuare e
costruire?
Storia – È una constatazione
d’ignoranza. Incolmabile. Tutta la conoscenza lo è, nel momento stesso che apre
qualche porta o squarcia qualche velo. Ma dello storico è il metodo scientifico,
operativo.
È
labile? Tutto nell’uomo lo è, e nella storia – nell’uomo in forma di storia? Si trova nei Salmi che “la morte non conosce memoria”. Ed è invece
al contrario che funziona, anche a non credere alla resurrezione. È che la Bibbia
è a volte anticristiana.
zeulig@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento