domenica 22 ottobre 2017

Secondi pensieri - 323

zeulig

Complotto – È una forma giuridica, quindi definita, per una tipologia criminale che richiede una concertazione: corruzione, estorsione, traffici illeciti (droga, azzardo, contrabbando), controllo del mercato (quote, prezzi, appalti). È l’associazione a delinquere. Una forma giuridica che, come tutte le forme giuridiche, tende a estendersi indistintamente, se non definita e vigilata.
La legislazione tende ad ampliarla, ma come lavandosene le mani. Generalizzandosi, infatti, la forma diventata indistinguibile e “improbabile” – i processi da qualche tempo, dopo la prima novità, tendono a restringerne la portata.
È la psicosi del complotto che porta allo svuotamento del diritto, della forma giuridica? Ma dopo che il diritto ha stabilizzato la psicosi. È stato il problema in particolare dell’antimafia, e ora è dell’anticorruzione: le norme indistinte diventano inapplicabili, esse stesse parte del problema criminale, del “complotto” o associazione.

Conoscenza – Rafforza l’ignoranza nel mentre che la aggredisce. È una sorta di scultura del non finito, insieme confusa e precisa, attorno al corpaccione della realtà. Una gulliveriana, nelle vesti dei lillipuziani che si affaccendano sul gigantesco Gulliver. Gigantesco in rapporto alla loro piccolezza di formichine.

Contemporaneo – Si vuole di un classico, a suo maggiore onore, che sia sempre attuale, in ogni epoca e a ogni latitudine. Mentre forse la specificità è miglior titolo. Nel quadro magari di una questione generale sempre viva - la giustizia, la fedeltà, la passione (o la spassionatezza),  ogni nostra questione aperta. Una soluzione originale, e adeguata allo scopo. Che non può essere sempre e ovunque uguale.

Fatto – “Scartiamo tutti i fatti!”: quando Rousseau avvia l’indagine sull’origine dell’ineguaglianza, parte con questo proclama. Dopodiché, con sciolta dialettica, deduce ciò che ha dovuto essere.

Morte - “La morte e la bellezza sono due cose profonde\ che contengono tanta ombra e tanto cielo da dirsi\ due sorelle ugualmente terribili e feconde\ che dividono lo stesso enigma e il segreto”, secondo Victor Hugo. Che però sa che non è vero – si è guardato dal vivere in conformità, sfuggiva la sofferenza. Se non nel senso di Borges: “La bellezza è fatalità più che la morte”. Von Platen l’aveva già detto, ma in senso opposto: “Chi guarda la bellezza con gli occhi si è già consegnato alla morte”.
È tema (materia) che non si esorcizza, per quanti “voli pindarici” vi si possano fantasticare sopra. La morte è reale.

Nudo – A lungo si privilegiò nei simboli cristiani l’Incarnazione rispetto alla Morte, fino al Rinascimento, che per questo è pieno di dipinti osceni della Madonna col Bambino. E nella teologia dell’Umanesimo, il secolo che preparò la Riforma – che la chiesa si fece poi cancellare dalla polemica luterana. Il corpo non mente. Si dice, ed è vero: tutto nella materia rinvia all’immateriale.
Michelangelo combinò l’una nell’altra, la vita e la morte. Senza turpitudine: il primo significato teologico del nudo è l’origine, la creazione. Nell’aspetto d’amore e innocenza che si associa al momento seminale, sia nel creatore che nel creato. Di una volontà che si perfeziona generando fragilità e vulnerabilità. Questo per i cristiani, che san Girolamo vuole “nudi a seguire il Cristo nudo”.
Ma c’è un che di compiaciuto, in questo amore di se stessi indifesi, e la cosa è sospetta.

Progresso - Si procede stando immobili. Si vive bene se si sta qui ora. Si diventa immortali, almeno prima che morte non sopraggiunga - e si fa buona storia. Ma non coinvolti, non del tutto: è l’esserci e il non esserci di Amleto. Che vive il presente, e anche il futuro – lo presuppone.
È tema di Jünger, che quella del proscritto, del latitante, è la condizione per eccellenza dell’uomo.

Reale – È la ratio dell’evento. Del destino, ora impronunciabile - ci sia una coppia di Barcellona che decide di festeggiare l’anniversario di matrimonio da soli, senza i figli, di festeggiarlo a Firenze, città che amano, nei pressi di Santa Croce, il loro monumento affettivo, e una mattina, mentre ci passano davanti, lui decide di entrare un momento per una sua particolare devozione, e mentre attinge con le dita al fonte battesimale per segnarsi con l’acqua benedetta è colpito in pieno da un cornicione staccatosi a trenta metri di altezza, da un a struttura appena restaurata, questo è un evento e non il destino.

 “Il mondo e la vita sono uno”, Wittgenstein stabilisce. E: “Io sono il mio mondo” - o stabilisce che “il mondo è indipendente dalla mia volontà”? Spinoza deve averlo pensato - che avrebbe vissuto opportunamente un secolo dopo nella Polonia hassidica, invece che a smerigliare occhiali per tristi calvinisti, la quale estraeva Dio da ogni aspetto della vita, la danza inclusa, e il vino, rimediando al terribilismo inetto della Bibbia. Al coperto l’ha detto: “L’uomo genera Dio tra le ombre”.
Wittgenstein ha l’agilità del ninja, ora c’è ora non più, ombra molto reale, e contro l’irriverente Popper si ridusse a brandire attizzatoi, come un personaggio di Jack London.

Wittgenstein aveva problemi a descrivere l’aroma del caffè. Problemi non di parole ma di contorni, di delimitare i confini della cosa. Che vuol dire stabilire delle regole. Sarebbe scavare sabbia, spiega Bateson, perché i contorni ci vincono: mentre delimitano la cosa, la occultano. E finisce, conclude arguto Contardo Calligaris, che la cornice conta più del quadro. Senza contare che mettere in cornice si fa, nei ritratti e in letteratura, per i defunti. Bene, Marx avrebbe detto rovesciamento della cosa. Wittgenstein nella sua prima incarnazione pensò di avere dissolto la filo-sofia, la sua inclusa. Per questo si mise a fare il geometra, e il maestro rurale. È per questo che è simpatico, a uno così non si può obiettare niente.
È più spesso una fuga dal reale reale, che resta la morte.

Quello storico è alla decadenza e alla morte. Non si parlava mai della morte, non in letteratura, neppure nelle trincee, o nei lager, e sembrava buona norma, ora si fa con diletto. La crisi è coltivata, è l’ansia del ricco per l’erosione delle rendite: pesa più degli infarti, i tumori, gli incidenti, le epidemie. Non per carità, al contrario, è buttare il modo infetto addosso all’interlocutore, una cosa da untori. Il destino è anche sociale, e delle epoche storiche: sembra che, cessando il bisogno, si sia perduto il giudizio, e ogni stimolo al lavoro ben fatto. Le formazioni sociali sono vuote, e non per mancanza di volontà, è come cantare col naso. Di tale banalizzazione sono specchio la letteratura e la filosofia, gonfie di falsità: melasse, concettismi, oltraggi, tutto coltivato e insulso.

Sospetto – È la cultura dell’Occidente: l’interrogazione, ma non ingenua. Nella scienza come nella filosofia: si invera l’esito scagliando anatemi. C’è un bisogno di sospettare. A  fini conoscitivi, ma anche (auto)distruttivi. E quindi terapeutico o debilitativo?
Non è una questione di misura – di dove e come fermare il dubbio. È di impianto: indagare per abbattere (astio, odio, per quanto giustificato), magari divertendosi, o premiando il proprio ingegno, oppure per individuare e costruire?

Storia – È una constatazione d’ignoranza. Incolmabile. Tutta la conoscenza lo è, nel momento stesso che apre qualche porta o squarcia qualche velo. Ma dello storico è il metodo scientifico, operativo.

È labile? Tutto nell’uomo lo è, e nella storia – nell’uomo in forma di storia? Si trova nei Salmi che “la morte non conosce memoria”. Ed è invece al contrario che funziona, anche a non credere alla resurrezione. È che la Bibbia è a volte anticristiana.

zeulig@antiit.eu 

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