Gli Usa c’entrano nel libro:
il protagonista, comunista deluso dalla politica, fine anni 1950, è un ex
emigrato in America. Emigrato politico, da combattente per la Repubblica in
Spagna, dopo la vittoria di Franco – nell’Italia fascista il ritorno gli era
impedito Non è questa però la ragione della traduzione ora a New York, in
controtendenza nell’America di Trump, de “Il comunista” di Morselli, il più
voluminoso dei suoi tanti romanzi postumi, il doppio degli altri. Per le cure
dell’italianista Frederika Randall, presentato dalla scrittrice Elizabeth
McKenzie, edito dalla prestigiosa “New York Review of Books”. È riletto come il
romanzo della perdita della fede: deputato per il Pci negli anni 1950, è deluso
dal rapporto di Kruscev sulla dittatura di Stalin, dagli opportunisti e
profittatori dentro e fuori del Partito, e poi da ciò che vede in Unione
Sovietica, e isolato nel partito perché legato sentimentalmente a una donna sposata.
I noti limiti del Pci, di cui allora (Morselli scrisse “Il comunista” nel 1964-65,
un quarto di secolo prima della caduta delle illusioni) non si poteva parlare.
Walter Ferranini, è questo il suo nome, è sempre un comunista, ma il Parito non
è più la sua vita o la sua casa – e forse non lo è mai stata: è come non essere
ancora anti a cinquant’anni.
Letto in italiano in Italia è
un po’ il romanzo dell’antipolitica di questi anni. Niente si salva: se non è
corrotta o opportunista, la politica è debole, inafferabile, al più
burocratica. C’è anche la “casta”, cinquant’anni prima. Modesta: la Camera
dei Deputati è “verbosa, borghese e superflua”. In un paese già allora irretito
nelle chiacchiere: “In Italia la gente vive di chiacchiere, si consuma in
chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere, che razza di paese”.
Ferranini
è il paleo comunista, puro e duro: 45 anni, operaio, autodidatta, militante di
Spagna, fuoriuscito in America, autodidatta, scientista, appassionato di Darwin
quanto di Marx, manager. Ha anche scritto un saggio, “Lavoro, mondo fisico,
alienazione” e questo lo ha messo in posizione “deviazionista” nel Partito: il
lavoro è maledetto, il lavoro non riscatta e non si riscatta. Non è un’idea
peregrina – Morselli, narratore-pensatore, filosofo di formazione, rielabora senza
dirlo il famoso saggio di Rensi, “Contro il lavoro”. Il lavoro è: 1) “Una
condizione universale e insopprimibile”, 2) Senza riscatto: “È una schiavitù,
si è sempre saputo”, e “la schiavitù del lavoro rimane”, anche senza
sfruttamento, “in quanto necessità fisica”. Col lavoro “rimane la sofferenza,
che è il suo aspetto soggettivo”.
Moravia
pubblica il saggio di Ferranini nella finzione. Calvino rifiuterà il romanzo di
Morselli nella realtà. Nel modo peggiore, lodandolo. Gli scrisse una lunga
lettera, autografa, il 5 ottobre 1965, molto elogiativa, ma con la premessa che
a lui i romanzi politici non piacciono: “La lettura dei manoscritti è un
lavoro suppletivo, ed è anche un lavoro - devo dirglielo subito - che, quando
si tratta di romanzi politici, faccio senza nessuna speranza…. Gran parte del
mio giudizio è basato su questo a-priori”. Di fatto poi il romanzo gli è
piaciuto: “Ci ho preso gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo
che ho impiegato a leggerlo, posso dire che mi ha mosso pensieri e ci ho
imparato”. Ma non lo pubblicherà. Non per l’a-priori - che non ha messo in
atto, per esempio, con Fenoglio. Una riserva è probabilmente decisiva: “Dove
ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito
comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco a tutti i livelli. Né
le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere”. Sono
vere invece per il rilettore di oggi. Le uniche vere, quella americane ed
emiliane – Ferranini è esemplare anche in questo: è emiliano - sono di maniera.
Alla
rilettura questo “Comunista” prende
solo a tratti, molto è roba inutile. Ma sono proprio i tratti i politici, se
appena appena si è sensibili alla politica. Una politica triste, di ubbie e
preconcetti, fra trattorie dal vino acido e pensioni che sanno di chiuso.
Togliatti è Maccagni, altri personaggi sono a chiave. Ferranini negli Usa
anticipa pure l’altro Walter, Veltroni: “Qui c’è l’efficiency. Lo
riconosce anche il grande Stalin. Nel libro «Principi del leninismo» dice:
“Lo spirito rivoluzionario russo deve unirsi alla organizzazione americana”. Se
non che l’organizzazione è del Partito, ed è l’unica cosa che il Partito sa
fare: “La Curia (come la chiama Maccagni) brava gente
occupatissima a tenere su la baracca, a mandare avanti il tesseramento,
l’organizzazione, la stampa, le ispezioni…”. La linea è dettata da qualche
russo – “Vinicenko dice…”. Le cooperative sono “scimmie del capitalismo”.
Nel suo
stile piano, Morselli ha pure già l’ecologia. Ferranini prova a uscire dal
pantano romano tornando dalla moglie che ha lasciato negli Usa. Dove però non
si ritrova, ma apprezza che si rispettino gli alberi, lasciandoli invecchiare e
anzi coltivandoli, invece di abbatterli come in Italia.
È anche –
sembra impossibile – l’unico romanzo sul Pci, che pure tanto è stato, è,
nell’anima degli scrittori italiani. Dopo Calvino, Morselli propose il romanzo
a Cesarano, che era del Pci e ne era stato espulso. Giorgio Cesarano era alla
Rizzoli, e gli fece un contatto. Poi Cesarano fu licenziato, e il contratto fu
disatteso. Nel 1975 Cesarano si ucciderà, due anni dopo Morselli, uno prima
dell’uscita de “Il Comunista” nel 1976. Il quarto libro postumo pubblicato in
due anni, per il successo istantaneo dello scrittore inedito dopo morto.
Guido Morselli, The Comnunist, The New York Review of
Books, pp. 324. $ 12
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