Canovacci, appunti, e tre
storie consistenti – le altre sono
frammenti: “Féder”, “Le juif” e “Une position sociale”, che sarebbe stata il
romanzo “romano” di Stendhal. Tre incompiute che sono anche tentativi di
ricerca espressiva. “Le juif” è giocato sul ritmo del genere pìcaro, di personaggi e eventi che tasmutano
ogni poche righe. “Féder” e “Une position sociale” sono ancora molto Settecento,
ma il primo anticipa la figura del Buonannulla, il secondo una poco stendhaliana
deriva al beghinismo.
Il romanzo romano non è stato
fatto, ma resta godibile il selfie di
cui lo scrittore abbonda, in veste di comprimario, in travestimento
trasparente: tic, indolenza, indecisione. Attorno a un personaggio molto
stendhaliano, l’ambasciatrice duchessa di Vaussaye. La duchessa, la bella
tentatrice, è “romana” nel senso che vive la morte, nello spirito religioso –
come sarà la romana dei Goncourt, Mme Gervaisis del romanzo omonimo. Romano si
può dire anche il senso di copa dei “ministeriali” francesi, “che il governo ha
comprato con uno stipendio” – mentre “i loro rivali in gloria, i ministeriali
inglesi, non sono sensibili al disprezzo”.
Anche “Féder” è di fatto un
altro Stendhal, sebbene a vent’anni e non a quaranta come a Roma. È un racconto
alla fine umoristico – il riso è tema di molte riflessioni di Stendhal:
http://www.antiit.com/2014/04/il-riso-fa-male-al-potere-e-al-borghese.html
Non involontariamente, anche se a tratti lo sembra. Di un fannullone che
diventa artista rinomato e ricco, in virtù della sua aria da “Werther
disperato”, protagonista in otto lunghi capitolo del solito amore interruptus.
“Le juif”, scritto a Trieste
nel 1831, al freddo, è un racconto che oggi non si può fare, di disgrazia ma
anche di furberie e sopraffazioni reciproche. Di uno che, dice di sé, si era
“inamorato del denaro”. La storia di un Filippo Ebreo, povero, che fa fortuna
in Francia, poi la perde, poi la riacquista, e la riperde. Lo stesso con l’amore.
Un abbozzo di storione familiare – quasi un romanzo d’avventure. Di cui resta
inspiegata la caratterizzazione, l’ebraismo.
Materiali preparatori, con
poco o punto sviluppo. Stendhaliani, naturalmente. La psicologia secca,
tagliata col regolo. Il fondo storico (concreto, realistico) sempre dettagliato
e appariscente. I caratteri sorprendenti, per minute costanti variazioni, sia
pure per accrescimento. E molto Settecento, specie nei due abbozzi più lunghi,
“Une position sociale” e “Féder”. Con lunghe digressioni. Anzi, essi stessi
digressioni.
Una conversazione fra i tre
membri del Club Stendhal che riedita l’opera, Charles Dantizig, Dominique
Fernandez e Arthur Chevallier, ne fa una serie di ottimi soggetti per il
cinema. Con un tocco in più di Fernandez: ricordando che Stendhal lavorò al
romanzo romano nel 1832, quando risiedeva nell’albergo di piazza della Minerva,
ne approssima l’“arte” di non finire i suoi romanzi col non finito di
Michelangelo. Di cui poteva vedere ogni giorno nella chiesa dei domenicani il
Cristo invece finito, e per questo sciatto.
Periodicamente gli
stendhaliani ci riprovano.Questi
“romanzi incompiuti”, con la fascetta “inedito”, sono gli stessi, meno il
frammento “Madame Tarin”, che Michel Crouzet proponeva nel 1968. In parallelo
con Victor Del Litto, che invece nello stesso anno metteva insieme sedici testi
non finiti e abbozzi, sei più di questa raccolta. L’uno sotto il titolo “Romans
abandonnés”, con abbondanti note e un elaborato saggio proprio sul tema del non
finito, “De l’inachèvement”. Del Litto col titolo “Romans et Nouvelles” animava
la raccolta anche con quattro racconti finiti e noti, due pubblicati da
Stendhal e due postumi. Quattro di questi “incompiuti inediti” si trovavano del
resto nella vecchia Pléiade, nel secondo dei due volumi di romanzi e arcconti
curati da Henri Martineau: “Le Juif”, “Philibert Lescale”, “Féder”, “Le
Chevalier de Saint-Ismier” - ma niente è probabilmente inedito, tutto o quasi e
dopo la morte di Stendhal, e da Martineau e altri col revival stendhaliano del
primo Novecento.
Stendhal, Romans inachevés, Grasset, pp. 273 € 10
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