Apostoli – Erano
ignoranti, si dice. E infidi. Ma furono predicatori, persuasivi, e scrittori.
Di cose nuove e quasi da inventare, non codificate.. Alcuni subirono il martirio.
E tutti furono santi, quindi qualche merito dovettero averlo. Per non dire che
crearono dal nulla un Messia ignoto ai più, crocefisso nella disattenzione, una
religione di grande e duraturo successo, e una chiesa. Dapprima per cooptazione,
quindi per giudizio loro, no dovevano esserne sprovvisti. E per opera di
convinzione, a cominciare da san Paolo, personaggio non da poco.
Impegno – È stato il
tema degli intellettuali nel dopoguerra e fino alla caduta del M uro: se
impegnarsi in politica, sottinteso per il comunismo. Dibattuto per qualche
tempo in Italia, fino a un dibattito celebre fra Moravia e i Sartre in visita a
Roma, apostoli, sia lui che Simone de Beauvoir, dell’impegno.
Secondo Sartre “il Partito non ha bisogno
di te, sei tu che hai bisogno del Partito”.. Anche se, aggiungeva, “in ultima
analisi è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare la marcia dei
popoli”. Ma presto, a fine anni Sessanta, attorno al Sessantotto parigino,
confuso, uno per il quale “tutte le attività sono equivalenti e tutte sono
votate allo scacco”.
Fu peraltro infaticabile organizzatore di pronunciamenti e lotte intellettuali,
con manifestazioni, proteste e manifesti. Lo scrittore-poeta greco Vassilikos
raccontava nel 1968 che l’anno prima seppe di essere stato incarcerato dai
colonnelli greci al potere ad Atene da un appello pubblicato con molte firme in
Francia. Lesse l’appello a Roma, mentre prendeva il cappuccino. Telefonò ad
alcuni dei firmatari e seppe che Sartre aveva una delega in bianco per lanciare
appelli.
Moravia,
che nel 1960 contestava Sartre su questo aspetto, sarà poi impegnato e impegnatissimo
– nel 1984 fu anche eurodeputato per il Pci.
L’impegno
dei compagni di strada fu inventato e organizzato da Willi Münzenberg. Personaggio
dimenticato ma nei due decenni tra le due guerre mondiali l’organizzatore di
eventi per conto del Comintern, il coordinamento dei partiti comunisti di
Mosca.
Tribù – Era
tribale la società ateniese, alle origini della democrazia. Né la Catalogna è
un’eccezione oggi, o le Fiandre in Belgio. Il razzismo
è scandaloso. Era scandaloso l’apartheid, o sviluppo separato, in Sud
Africa, ma non del tutto – era scandaloso in quanto discriminava. Ma il
tribalismo è un fatto. Agli onori ancora nel diritto internazionale – anche nella
divisione dei popoli in base a ideologie: due Irlande, due Coree, due Vietnam,
due Cine (e due Europe fino a recente, due Germanie). Lo stesso hitlerismo, l’autoaffermazione
del popolo tedesco, non è isolato: ogni azione di difesa è aggressiva, e
perfino distruttiva.
La partizione per credo religioso e politico,
invece che biologica, ha una connotazione diminutiva. Ma è robusta, derivata
dalla razionalità puritana: il bene èdiviso dal male. Insomma dalla mentalità
del ghetto, estesa al sociale con la divisione in classi.
Il cosmopolitismo non è del resto più naturale
del tribalismo, l’assimilazione culturale non migliore della tradizione. La
varietà culturale salva la pedagogia, per l’ovvia esigenza di non traumatizzare
l’infante e svilupparne le potenzialità. E migliora l’integrazione sociale - i marranos,
porci giovani, non sono mai stati sudditi leali - e lo sviluppo economico. L’America
ha tenuto in vita, più a lungo, più dettagliato, con danni minori che in
qualsiasi altro luogo o epoca, e anzi produttivamente, un sistema di
separazione etnica minuta e rigida, tra bianchi e neri, tra anglofoni e latini,
germanici, slavi, e tra anglofoni d’Inghilterra e d’Irlanda, tra ebrei
orientali, o sefarditi o di Babilonia, e ebrei occidentali, o ashkenaziti o di
Gerusalemme. Fatta salva l’eguaglianza dei diritti.
Wahabismo – Verrà dall’Arabia
Saudita la “modernizzazione” dell’islam, a opera del giovanissimo principe
ereditario, Mohammed bin Salman, 32 anni? Una meteora nella tradizionalissima
politica saudita, monopolio per un secolo del fondatore Abdelaziz Ibn Seud e
dei suoi figli, o meglio un meteorite. Il principe ha concesso il diritto di
guidare l’automobile alle donne, e simultaneamente la cittadinanza a un robot
antropomorfico. Ha anche varato un piano da 500 miliardi di dollari per la
realizzazione della prima città al mondo “pulita”, al Nord, nell’area desertica
con la Giordania e l’Egitto, a energia solare, auto senza conducente, gestione
in automatico a intelligenza artificiale.
Mohammed
bin Salman è di fatto il governante del paese, poiché il re suo padre è molto
in età e ha problemi di salute gravi - con la testa, si dice. Ma è evidentemente
in attrito con l’estesissima famiglia regnante, di circa duemila principi – l’evidenza
nasce dal fatto che ne arrestati un paio di centinaia, con l’accusa di
corruzione. E di più con il suo stesso islam, il wahabismo.
L’islam praticato e diffuso dall’Arabia Saudita, dove è fiorito
nel secondo Settecento, è una dottrina rigorista e tradizionalista pre-greca, che
si rifà cioè all’islam anteriore di prima della sua permeabilizzazione da parte
della cultura greca, nei secoli IX-X. Con proibizioni radicali che l’islam ortodosso
non considera, del caffè e il tabacco, e di ogni culto. Compreso, in anni non
recenti, quello di Maometto, che li portò a distruggere la sua tomba a Medina.
È dottrina recente, opera nel primo Settecento di un riformatore
dei Banu Tamin, una vasta tribù, Mohammed Abdel-Wahab, un ortodosso ultraconservatore che ebbe subito
vasto seguito nella penisola arabica, compreso il Qatar. Molto esclusivo anche:
chi non pratica l’islam secondo le sue regole è, sia pure pio mussulmani, un
pagano nemico dell’islam. È la matrice del fondamentalismo o radicalismo
islamico che infuria da un venticinquennio, e si esercita con più determinazione
e vittime in ambito islamico, contro moschee, scuole, mercati. Di formazione wahabita sono i
Talebani in Afghanistan, ed era Osama Bin Laden. È forte
anche nell’India mussulmana. Ma s’identifica bizzarramente con la dinastia
saudita. Coi regni modernizzatori dei figli di Ibn Saud – e finora anche con i
loro lussi stravaganti, compreso il gioco d’azzardo.
Il regno si classifica come sunnita wahabita. Dopo la graduale
espansione delle tribù wahabite dell’interno contro sufi, sciiti, zaiditi, e
altre minoranze delle regioni costiere e urbane alla fine dell’Ottocento. Ma la
dinastia regnante, sicuramente sunnita wahabita, si impose quando negli anni
1930 il fondatore, Abdelaziz Ibn Seud, stroncò con centinaia di esecuzioni la
Fratellanza Wahabita, l’ala radicale che si espandeva a partire dall’Iraq e
dalla Giordani. Ridando libertà di culto alle minoranze. E soprattutto,
all’Est del paese, agli sciiti – di cui invece ora il principe ereditario è il
nemico mortale. Nonché ai vari “infedeli” che popolavano il paese per
l’industria del petrolio. A Gedda, la capitale diplomatica, e a Dammam, la
capitale del petrolio, si dava conto delle celebrazioni festive cristiane oltre
che islamiche, c’erano dei cinema pubblici, si davano concerti, le donne
potevano mostrarsi anche poco velate.
Tutto è poi cambiato col boom del petrolio, e col khomeinismo. Dopo
di allora, nel quasi mezzo secolo successivo, i regnanti si sono ritagliati
l’economia del regno, mentre il fondamentalismo wahabita ha invaso il paese,
anche le città, in tutti gli aspetti della vita associata: giustizia, scuola,
costume. Creando nuove frizioni con le minoranze, soprattutto con gli
sciiti, che ora hanno come riferimento la potenza esterna, e concorrente,
dell’Iran. Un pese sonnacchioso di tribù
sparse per i suoi deserti, più spesso ancora in tenda, è divenuto rapidamente, in
un paio di decenni, uno dei maggiori player internazionali della ricchezza, e patrono e finanziatore dell’espansione
islamica in Africa e nel Sud-Est asiatico. Con investimenti, per scuole
coraniche e moschee, di molti miliardi di dollari. Dall’Indonesia alla Malesia,
e fino a Culver City negli Usa. In parallelo, radicalizzò il dormiente fervore
religioso wahabita il khomeinismo. Nel 1984, quattro anni dopo l’avvento di
Khomeini, che in Iran aveva debuttato rovesciando lo scià, un movimento analogo
agitò l’Arabia Saudita. Militanti sunniti wahabiti presero d’assalto la Grande
Moschea della Mecca, il luogo santo per eccellenza dell’islam, e proclamarono
un nuovo regime invece del saudita, sotto un Mahdi, un redentore.
Le forze wahabite fedeli alla monarchia contrattaccarono e
ripresero la moschea. Ma il contrattacco fu diplomatico più che militare: un
accordo per cui il controllo sulle donne (spostamenti, sempre con
accompagnatore, e abbigliamento, sempre in nero) veniva passato alla polizia
fondamentalista, e cinema e teatri-concerti venivano chiusi. L’accordo
che oggi il principe ereditario sta rovesciando.
astolfo@antiit.eu
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