Renzo Stefano Crivelli,
professore all’università di Trieste, scrittore in proprio, cura la traccia
forse più raffinata, ancorché criptica, di Joyce nell’amata Trieste: il poema
in prosa che lasciò inedito, sedici pagine autografe (sarà pubblicato nel 1968
dal biografo Richard Ellmann, col titolo “Giacomo Joyce”). Lo interpreta e lo
ripropone in traduzione.
È il poema di un amore che
non può essere. Che le biografie inviduano in una relazione platonica del Joyce
insegnante privato di lingua con una delle allieve. Un insegnante imbranato.
Francesco Binni, il curatore della prima traduzione italiana del poemetto, dava
al Giacomo del taccuino i tratti che Joyce assegnava allo scrittore irlandese
Charles Mangan, in un saggio del 1902 poi trasformato in conferenza all’università
Popolare di Trieste nel 1907: “Un improbabile gallant «troppo timido,tropo critic, troppo inesperto delle
affabilità del conversare», un character che
ha bisogno di «excesses» per salvarsi
dall’indifferenza e dal pericolo del congenito riserbo difensivo”.
Vent’anni fa una mostra a
Trieste, a cura di Simonetta Chiabrando e Erik Schneider, esibiva tre fanciulle
come possibili dedicatarie-protagoniste del poemetto: Annie Schleimmer, Emma
Cuzzi e Amalia Popper. Emma e Amalia, tra le quali Crivelli oscilla, sono un
po’ autocandidate. Ma Emma era del 1896,
troppo giovane allora per una relazione che Joyce intendeva seria.
Contemplò, pare, pure l’abbandono di Nora, che aveva appena sposat, ma parlaimo
del 1905, quando Emma aveva nove anni. Annie, figlia di commercianti tedeschi,
cattolici, filoaustriaci, era del 1881: era una bella donna e un’ottima
pianista, frequentò Joyce nel 1905, quando aveva 24 anni, ebbe con lui
sicuramente una relazione, ed è indiziata per essere “l’altra donna” di una
lettera di Joyce del 1905, quando accenna alla zia Josephine la possibilità di
una divisione da Nora. Ma il “Giacomo Joyce” è la poesia di un amore che
avrebbe potuto essere e non fu. Amalia Popper ha quindi i maggiori titoli a
esserbe la musa.
Il dato più importante, che a
Crivelli non interessa, è però, sia il poemetto del 1906-7 o del 1913-4, il
mutamento di linguaggio. Verso l’asintattico e il suggestivo invece del
regolamentare connotativo. E da questo punto di vista la seconda datazione è la
più probabile. Nei primi anni in Italia, a Trieste e a Roma, Joyce scriveva i
racconti di “Gente di Dublino”. Mentre nel 1913-4 c’era stato l’incontro, a
Trieste, di Joyce con Ezra Pound, che sarà influenza determinante sul suo
futuro di scrittore: sulla lingua, e sugli esiti editoriali.
Ellmann lo data con certezza
“nello stesso periodo in cui lo scrittore stave terminando «A Portrait of the
Artist as a Young Man» e iniziando «Ulysses»”, quindi 1913-14. Anzi, “la data
più verosimile per la versione finale è luglio o agosto 1914”. Ed era sotto l’influsso,
sostiene Ellmann, di “Senilità”: del “metodo narrativo di Joyce – autoriduzione
seguita da autoredenzione per via d’ingegno”, e di un vecchio-giovane come sarà
Bloom, in realtà solo trentacinquenne.
Renzo S. Crivelli, Un amore di Giacomo Castelvecchi, pp.
106 € 17,50
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