Joyce voleva diventare
italiano. Ci ha provato con insistenza. Fece l’abilitazione per l’insegnamento
nelle scuole, scrisse in italiano, per “Il Piccolo della sera”, il quotidiano
di Trieste (si era offerto come inviato in Irlanda, in una delle tante crisi nazionaliste
per l’indipendenza da Londra, al “Corriere della sera”….), tenne lezioni e
confereze in italiano. Prese lezioni di canto al Conservatorio di Trieste, cantò
all’opera Wagner, “I maestri cantori di Norimberga”. Ma la burocrazia fu più
forte di lui.
In Italia da fine 1904 per
dieci anni, ha letto a amava D’Annunzio, i romanzi, “Il fuoco” in particolare,
il più dannunziano. Ma, di più, si era fatto dantista: Dante è stato per lui
una rivelazione. Oculatamente il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione gli
impedì nel 1911 di “trasferirsi nel Paese la cui lingua usa ogni giorno,
avendola scelta deliberatamente come madrelingua per i suoi figli Giorgio e
Lucia”, come scrisse nella domanda per un posto di supplente. Per cinque anni
scrisse prevalentemente in italiano. Ma, benché cultore di Dante, Joyce non
poteva essere di lingua italiana. Oltre che della cittadinanza, l’Italia è
gelosa pure della lingua. Allo
scoppio della guerra, Trieste essendo asburgica, dovette lasciare la città e l’Italia.
Non se ne parla, e anche
questo è un segno - come se l’Italia non ci fosse nemmeno stata nella vita e
l’opera di Joyce. Che invece ancora in “Finnegans Wake” parla e pensa italiano,
con Anna Livia Plurabella e altre strutture linguistiche. Gli anni da lui
passati in Italia furono fertilissimi. Fra Trieste e Roma, con la prima
convivenza in matrimonio con Nora, e la nascita dei sue figli, Lucia e Giorgio (tre
con una terza nascita abortita), si ambientò ovunque senza problemi. È qui che si
precisa, in alcuni scritti italiani non ricompresi nell’antologia, eversore della
lingua e restauratore del pensiero – contro il Rinascimento, secondo la
tradizione medievistica di una parte del cattolicesimo (con cui Umberto Eco si
troverà in sintonia), contro l’illuminismo e ogni dottrina di progresso.
Silvana Panza – che per
linkedin persegue gli stessi meandri joyciani nella scuola secondaria italiana…
- riesuma qui alcuni degli scritti della prima antologia, “Scritti italiani”,
curata nel 1979 da Gianfranco Corsini, Giorgio Melchiorri, Nino Franck e
Jacqueline Risset. Sono scritti informati, anche quelli letterari (Dickens,
Defoe, Blake). Segnati dal ghigno anticonformista della “Gente di Dublino”, i racconti
che andava scrivendo in inglese, e poi in “Dedalus” o “Ritratto dell’artista da
giovane”. Joyce aveva debuttato parnassiano, ricercato, nelle poesie raccolte
in “Musica da camera”, 1907: l’impronta è evidente, benché non programmatica.
Joyce, studente di lingue moderne all’University College, era stato appassionato
dell’Ottocento francese, prima che di Dante e l’italiano. Anche i primi racconti,
coevi, si possono rileggere accostandoli a Gautier, Banville, Louÿs. Franco Marucci, nello studio forse più circostanziato sul Joyce
italiano (“Joyce”), ritraccia l’Italia anche nelle lettere, e ipotizza nell’esperienza
triestina incontri condizionanti con Svevo e, tramite Svevo, con la
psicoanalisi.
La neo lingua non gli era
d’ostacolo, e anzi sembra incentivarne la verve.
Specie se rapportata – fatto di grande rilievo che però viene anch’esso rimosso
– allo stato comatoso dell’inglese poetico e letterario dell’epoca, il decennio
prima della Grande Guerra. Gianfranco Folena è giunto a ipotizzare con buoni
argomenti che il plurilinguismo di
“Finnegans” Joyce ha derivato dal suo amato italo-veneto. Anche in
quanto scrittore delle prime, impressionanti, parolacce, è da ipotizzare che si
sia “liberato” nella parlata vernacolare di Roma e Trieste.
A Trieste, fra i tanti grandi eventi di Joyce, vi fu l’incontro
con Ezra Pound, l’eversore dichiarato dell’inglese di maniera, che gli pubblicò
“Dedalus” e sarà influenza decisiva per la scrittura joyciana, a cominciare
dallo stesso “Ulisse”. Il primo effetto dell’incontro fu sul “Giacomo Joyce”,
il poemetto lasciato calligrafo incompiuto, sull’amore di una maliarda a
Trieste.
James Joyce, L’Irlanda alla sbarra e atri scritti in
italiano, Ripostes, pp. 120 € 16
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