domenica 26 novembre 2017

L’eccezione Calvino

“Per vedere il lato tragico della vita io non ho mai dimostrato molta disposizione, la mia vocazione è piuttosto le deformazione grottesca e magari comica della realtà”.
“Nonostante che quest’era pan-meccanica, questo «duemila» avesse avuto innumerevoli profezie, sia negative – alla Huxley -, sia positive – alla Majakovskij -, si può dire che ci ritroviamo in essa inaspettatamente, e non finiamo di sorprenderci”, nel 1962.
“Una spinta visceral-esistenzial-religiosa accomuna l’espressionismo, Céline, Artaud, una parte di Joyce, il monologo interiore, il surrealismo più umido, Henry Miller e giunge fino ai nostri giorni”. O: “Una vocazione profonda della letteratura italiana... passa da Dante a Galileo: l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere come mosso da una spinta conoscitiva, che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria”.
Con “l’invivibilità del mondo asessuato in cui stiamo precipitando”, ed era solo l’inizio del femminismo, 1970. L’invasione mediatica della politica, o lo svilimento della politica stessa, un decennio dopo. E il debordare delle parolacce, o del linguaggio insignificante, quelo che “occupa gli spazi” senza dire nulla.
Un’intelligenza senza pieghe. E una traccia sicura, già nel 1950, 1960, fra le tante false pieghe innescate dalla passione politica astrusamente dominante: letteratura e scienza, letteratura industriale, lettetura di progetto, la crisi del romanzo – “la mia generazione potrebbe essere definitta come quela ceh ha cominciatoa occuparsi di letteratura e di politica allo stesso tempo”. Un altro Novecento. “Gli sviluppi dell’italiano oggi nascono dai suoi rapporti non con i dialetti ma con le lingue straniere”. Che è l’evidenza, lo era già nel 1965, quando Pasolini protestava il contrario – del resto Calvino è uno che scriveva in inglese e in francese.
Con sicura conoscenza di sé, del suo lavoro letterario. In ogni fase. E nell’insieme: “In un sistema inseguitori-inseguiti ogni inseguto è anche un inseguitore (o deve tarsformarsi in inseguitore”)”. Pena l’insignificanza: “La letteratura «moralizzante», «edificante», «educativa» non ha mai servitor da stimol morale se non per il lettore che la demistifica, che ne scopre la flasità, l’ipocrisia”.
Moto avvertito, da ex giornalista e ex segugio editoriale. “Lo sguardo dell’archeologo”, la sua proposta per una rivista che poi non si fece con Celati, Carlo Ginzburg e Guido Neri,è foulcaultiana già nel 1972. “I promessi sposi” sono letti come “il romanzo dei rapporti di forza” mentre usciva “L’Iliade o il poema della forza”, un titolo poi famoso di Simone Weil – che Calvino magari non avrà letto (ne era appassionato Franco Fortini, e tutto quelo che toccava Fortini scottava Calvino).
Una cinquantina di scritti d’occasione, letterari e non, “le parti più significative dei suoi interventi dal 1955”, apparsi su giornali e riviste, con qualche conferenza. Raccolti dallo stesso Calvino nel 1980 con questo titolo sbrigativo, come a dire “me ne lavo le mani”. Scrittore annoiato, un po’. Che era – era stato – del mestiere, ma aveva in uggia il “lavoro intellettuale”. Non lo dice, ma argomenta “uno scetticismo di fondo”. Ma poi fa, nella raccolta che ordina, un selfie letterario, confidente: di preferenze, evoluzioni, progetti – mai passion, Calvino non bara. In altre storie letterarie Calvino sarebbe stato quello che voleva essere, un folletto.
Qui parte dalla constazione di un fallimento – di una stupidaggine: “di uno che crede di lavorare alla costruzione di una società attraverso il lavoro di costruzione di una letteratura”- di costruzione? da edile? magari da capomastro, con una funzione da guida, spirituale, la guida è spirituale. Ma onesto: “Tra il giudicare negativamente il fascismo e un impegno politico antifascista”, si legge in uno dei tesi autobiografici della cronologia, “c’era una distanza che ora è quasi inconcepibile”. Già dal primo saggio in raccolta, “Il midollo del leone”, è scontato “il dramma della sconfitta dell’illusione degli intellettuali di poter governare la realtà italiana”.
Calvino è stato scrittore apprezzato di racconti, mentre i romanzi gli venivano boacciati – da critici eminenti amici suoi, Ferrata, Vittorini: “Il Bianco Veliero”. “I giovani del Po”, “La collana della regina”. I “padri” cui fa riferimento in quegli anni, 1960-1970, non erano del resto ortodossi. Fourier, ben tre saggi, il Grande Ordinatore, “l’ordinatore dei desideri”, “l’Ariosto degli utpoisti” (“tre anni di riflessioni, 1968-19871”). E l’amato Ariosto, “quello che sento più vicino e nello stesso tempo oscuramente affascinante”: “Egli ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d’ironia, d’accuratezza fromale”. Come narratore è del resto in corso di revision. Ma sarà stato un “intellettuale” di prim’ordine, checché ne pensi, ben presente su riviste e giornali.
È forte critico letterario. La conferenza “Natura e storia nel romanzo” è una superba sintesi del grande romanzo Otto-Novecento, in Europa. C’è anche l’École du regard  - “la perdita dell’io, la calata nel mare della oggettività indifferenziata”. Pavese. Molto Cassola, ancora non radiato all’indice. Pasolini,“uno scrittore tra i più letterati e razionali”, ritratto dal vero in poche righe. Limitative: il suo romanesco è “un gergo del sottoproletariato dei soborghi di Roma”. E non: “Il più classico, il più virgiliano, il più appassionatamente professore di tutti noi”, e “l’unico per cui la tradizione è carne della sua carne, l’unico che riporta ad onore proprio le forme letterarie che erano solo i benpensanti ad amare ancora – la poesia delle odi civili e quella del popolaresco dialettale - , l’unico che in fatto di morale ancora crede che tutto sia questione di peccato e di redenzione”. Vittorini, molto, giusto per la storia, ma legato a Picasso, e a Hemingway – che però, uccidendosi, cambia le carte dell’amico celebrato in morte. Il comico, una paginetta, ma pregna: niente satira,  “la satira ha una componente di moralismo e una di canczonatura” che non fa per Calvino, “quello che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio”.
E un po’ovunque, nel quarto di secolo coperto dalla raccolta, Galileo, “il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo”.  Letteratura e scienza, che dirne? Nella querelle dei primi 1960 Barthes, scienziato è contro, Queneau, fantasioso, pro.
Italo Calvino, Una pietra sopra, Oscar, pp. 391 € 11

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