“Per vedere
il lato tragico della vita io non ho mai dimostrato molta disposizione, la mia
vocazione è piuttosto le deformazione grottesca e magari comica della realtà”.
“Nonostante
che quest’era pan-meccanica, questo «duemila» avesse avuto innumerevoli
profezie, sia negative – alla Huxley -, sia positive – alla Majakovskij -, si
può dire che ci ritroviamo in essa inaspettatamente, e non finiamo di
sorprenderci”, nel 1962.
“Una spinta
visceral-esistenzial-religiosa accomuna l’espressionismo, Céline, Artaud, una
parte di Joyce, il monologo interiore, il surrealismo più umido, Henry Miller e
giunge fino ai nostri giorni”. O: “Una vocazione profonda della letteratura
italiana... passa da Dante a Galileo: l’opera letteraria come mappa del mondo e
dello scibile, lo scrivere come mosso da una spinta conoscitiva, che è ora teologica
ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora
di osservazione trasfigurante e visionaria”.
Con
“l’invivibilità del mondo asessuato in cui stiamo precipitando”, ed era solo
l’inizio del femminismo, 1970. L’invasione mediatica della politica, o lo svilimento
della politica stessa, un decennio dopo. E il debordare delle parolacce, o del
linguaggio insignificante, quelo che “occupa gli spazi” senza dire nulla.
Un’intelligenza
senza pieghe. E una traccia sicura, già nel 1950, 1960, fra le tante false pieghe
innescate dalla passione politica astrusamente dominante: letteratura e
scienza, letteratura industriale, lettetura di progetto, la crisi del romanzo –
“la mia generazione potrebbe essere definitta come quela ceh ha cominciatoa
occuparsi di letteratura e di politica allo stesso tempo”. Un altro Novecento.
“Gli sviluppi dell’italiano oggi nascono dai suoi rapporti non con i dialetti
ma con le lingue straniere”. Che è l’evidenza, lo era già nel 1965, quando
Pasolini protestava il contrario – del resto Calvino è uno che scriveva in inglese e in francese.
Con sicura
conoscenza di sé, del suo lavoro letterario. In ogni fase. E nell’insieme: “In
un sistema inseguitori-inseguiti ogni inseguto è anche un inseguitore (o deve
tarsformarsi in inseguitore”)”. Pena l’insignificanza: “La letteratura
«moralizzante», «edificante», «educativa» non ha mai servitor da stimol morale
se non per il lettore che la demistifica, che ne scopre la flasità,
l’ipocrisia”.
Moto
avvertito, da ex giornalista e ex segugio editoriale. “Lo sguardo dell’archeologo”,
la sua proposta per una rivista che poi non si fece con Celati, Carlo Ginzburg
e Guido Neri,è foulcaultiana già nel 1972. “I promessi sposi” sono letti come “il
romanzo dei rapporti di forza” mentre usciva “L’Iliade o il poema della forza”,
un titolo poi famoso di Simone Weil – che Calvino magari non avrà letto (ne era
appassionato Franco Fortini, e tutto quelo che toccava Fortini scottava
Calvino).
Una
cinquantina di scritti d’occasione, letterari e non, “le parti più
significative dei suoi interventi dal 1955”, apparsi su giornali e riviste, con
qualche conferenza. Raccolti dallo stesso Calvino nel 1980 con questo titolo
sbrigativo, come a dire “me ne lavo le mani”. Scrittore annoiato, un po’. Che
era – era stato – del mestiere, ma aveva in uggia il “lavoro intellettuale”.
Non lo dice, ma argomenta “uno scetticismo di fondo”. Ma poi fa, nella raccolta
che ordina, un selfie letterario,
confidente: di preferenze, evoluzioni, progetti – mai passion, Calvino non bara.
In altre storie letterarie Calvino sarebbe stato quello che voleva essere, un
folletto.
Qui parte
dalla constazione di un fallimento – di una stupidaggine: “di uno che crede di
lavorare alla costruzione di una società attraverso il lavoro di costruzione di
una letteratura”- di costruzione? da edile? magari da capomastro, con una
funzione da guida, spirituale, la guida è spirituale. Ma onesto: “Tra il
giudicare negativamente il fascismo e un impegno politico antifascista”, si
legge in uno dei tesi autobiografici della cronologia, “c’era una distanza che
ora è quasi inconcepibile”. Già dal primo saggio in raccolta, “Il midollo del
leone”, è scontato “il dramma della sconfitta dell’illusione degli
intellettuali di poter governare la realtà italiana”.
Calvino è
stato scrittore apprezzato di racconti, mentre i romanzi gli venivano boacciati
– da critici eminenti amici suoi, Ferrata, Vittorini: “Il Bianco Veliero”. “I
giovani del Po”, “La collana della regina”. I “padri” cui fa riferimento in quegli
anni, 1960-1970, non erano del resto ortodossi. Fourier, ben tre saggi, il
Grande Ordinatore, “l’ordinatore dei desideri”, “l’Ariosto degli utpoisti”
(“tre anni di riflessioni, 1968-19871”). E l’amato Ariosto, “quello che sento più
vicino e nello stesso tempo oscuramente affascinante”: “Egli ci insegna come
l’intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d’ironia, d’accuratezza
fromale”. Come narratore è del resto in corso di revision. Ma sarà stato un “intellettuale”
di prim’ordine, checché ne pensi, ben presente su riviste e giornali.
È forte critico
letterario. La conferenza “Natura e storia nel romanzo” è una superba sintesi
del grande romanzo Otto-Novecento, in Europa. C’è anche l’École du regard - “la perdita dell’io, la calata nel mare
della oggettività indifferenziata”. Pavese. Molto Cassola, ancora non radiato
all’indice. Pasolini,“uno scrittore tra i più letterati e razionali”, ritratto
dal vero in poche righe. Limitative: il suo romanesco è “un gergo del
sottoproletariato dei soborghi di Roma”. E non: “Il più classico, il più
virgiliano, il più appassionatamente professore di tutti noi”, e “l’unico per
cui la tradizione è carne della sua carne, l’unico che riporta ad onore proprio
le forme letterarie che erano solo i benpensanti ad amare ancora – la poesia
delle odi civili e quella del popolaresco dialettale - , l’unico che in fatto
di morale ancora crede che tutto sia questione di peccato e di redenzione”. Vittorini,
molto, giusto per la storia, ma legato a Picasso, e a Hemingway – che però,
uccidendosi, cambia le carte dell’amico celebrato in morte. Il comico, una
paginetta, ma pregna: niente satira, “la
satira ha una componente di moralismo e una di canczonatura” che non fa per Calvino,
“quello che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca è la via
d’uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni
giudizio”.
E un po’ovunque,
nel quarto di secolo coperto dalla raccolta, Galileo, “il più grande scrittore
della letteratura italiana di ogni secolo”. Letteratura e scienza, che dirne? Nella querelle dei primi 1960 Barthes,
scienziato è contro, Queneau, fantasioso, pro.
Italo Calvino, Una pietra sopra, Oscar, pp. 391 € 11
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