La storia come prognosi è
l’avvio. E “tema filosofico” - “che, se inteso in tutta la sua serietà, implica
ogni maggiore problema dell’essere”. Sul presupposto che “ogni vera
storiografia è vera filosofia; altrimenti è un lavoro da formiche”. Tema e
prognosi sviluppate in fondo alla stessa “Introduzione”, al § 16,
sull’“antitesi fra storia e natura”,
una “scoperta… che, sola, permette dii cogliere l’essenza della storia”.
Antitesi cui l’uomo è antitetico: “L’uomo è elemento e rappresentante
dell’universo non solo come membro della natura, ma anche della storia”.
Un progetto ambizioso – la
prognosi – ma non una grande scoperta fin qui. Anzi, è il problema dei problemi
dal tempo dei “grandi Eleati”, quando si videro costretti ad affermare che “per
la conoscenza non esiste il divenire ma soltanto un essere (il divenuto)”. Si
considerò la storia come natura, col “grave errore di applicare i principi
della causalità, della legge, del sistema, cioè le strutture dell’essere fisso,
alle forme dell’accadere”.
Dunque, una storia senza
anamnesi? No, anzi, l’anamnesi è accurata, accuratissima – non siamo in
Germania? Supportata da tre minuziose tavole “sincroniche”: delle epoche
spirituali, delle epoche artistiche, e delle epoche politiche. Ma la diversa
“morfologia” che Spengler ha individuato gli consente da subito di vedere “la
guerra mondiale che si approssima” non
come “un irripetibile incontro di fattori fortuiti”, ma come “una tipica svolta dei tempi avente da secoli
un suo posto biograficamente
predeterminato all’interno di un grande organismo storico di una estensione
perfettamente circoscrivible”. Cioè l’avvento della Germania. “Il tramonto”,
pubblicato sul finire della guerra (il primo volume nell’estate del 1918 a
Vienna, il secondo a Monaco, dove Spengler risiedeva, beneficiando di un
modesta rendita, nel 1922, con la revisione del primo), è stato concepito e
scritto prima – era già finito nel 1914. Morfologia è il sottotitolo del primo
volume: “Lineamenti di una morfologia della storia mondiale”.
Un’opera sovrastimata. Stravagante
quanto sicumeristica - ispirata. Erudita in senso nazionalista, ancora
all’insegna dei primati e dei destini manifesti, mentre si preparava effettivamente
una fine dell’Occidente, ma a opera della
Germania. Esoterica in parte, malgardo l’imprinting dottorale e i buoni propositi. A un secolo (quasi) data
il futuribile è rimasto tale.
Spengler, storico allora
dilettante, costruì una grande mitologia. Che alla sua uscita in contemporanea
con la sconfitta fu di paradossale sollievo per l’università e l’opinione in
Germania. “Il tramonto” fu un successo, e rianimò gli sconfitti con la
creazione di una sorta di Grande Destino storico, facendone dei protagonisti.
Spengler assunse dignità accademica, più di una università gli offrì un posto,
a cinquant’anni. Anche se lui stesso si poneva problemi. E “al “Tramonto” fece
seguire un nugolo di precisazioni e revisioni, nelle riedizioni e in una
raccolta uscita postuma di “Urfragen”, cinquecento pagine di rimeditazioni.
La Germania sta al centro
dell’impianto di tutta l’opera. Come “vanno” le civiltà, è il quesito a metà
trattazione. In tre movimenti: “In tre fasi ben distinte: distacco dalla
civiltà; pura disciplina formativa di forme civilizzate; irrigidimento”. Con al
centro la Germania: “Questo sviluppo (l’irrigidimento) si è per noi già
iniziato e io vedo nel coronamento dell’edificio grandioso la missione precipua
dei Tedeschi”. E a seguire: “Tutti i problemi della vita, della vita apollinea,
magica e faustiana, vengono pensati sino in fondo, tanto che vien fissato in
modo definitivo ciò che si sa e ciò che non si sa”. Poi bisognerà applicare
“quelle forme a tutta la vita sulla terra”. Un tramonto come occupazione,
slargamento – “cinesizzazione” dice Spengler (stabilizzazione).
Spengler, divenuto famoso con
questo “Tramonto”, accoglierà dapprima con favore poi con ironia il nazismo.
Che però, recita la bandella (Jesi?), “gli rimproverò di non riconoscere i suoi
legittimi eredi”. L’unica ipotesi storiografica sostanziosa – non originale – è
la polemica contro il Rinascimento, che si è voluto allacciare alla classicità
greco-romana saltando i mille anni del Medio Evo, di elaborazione europea,
settentrionale, della storia (per questo Cassirer scriverà “L’uomo del
Rinascimento”, in polemica col “Tramonto”).
Una divagazione
interminabile, insopportabile. Con un solo filo conduttore. Anzi con due.
L’uno, semplice, è che le civiltà tramontano espandendosi, permeando il mondo,
“cinesizzandolo”. É così, Spengler non ha difficoltà ad ammetterlo. Si prenda,
dice, il mondo antico, “l’unico esempio di una civiltà interrotta nel punto
della sua piena maturità”: i Germani, di loro si tratta, non ne distrussero che
“il tratto esterno delle forme, sostituendo ad esso la vita della loro
pre-civiltà”. Le culture non scompaiono, hanno uno “strato profondo, «eterno»”.
E così il mondo classico sussiste – anche se in posti strani,”nella Francia
meridionale, nell’Italia meridionale e nella Spagna settentrionale” (con una notazione
preziosa, controcorrente sugli studi tedeschi all’epoca, che ritroveremo tal
quale in Ernesto de Martino: “Nelle feste religiose dell’Italia meridionale si
ritrovano ancor oggi culti antichi e pre-antichi”).
L’altro filo conduttore è il
primatismo. Fastidiosissimo, tanto più nel Novecento, in una guerra scatenata a
perdere, in un testo che si vuole di filosofia della storia. Gioacchino da
Fiore è “il primo pensatore della statura di un Hegel” – e lo è perché sorretto
dal “sentimento di un Gotico”. Contro la classicità e l’epigonismo
rinascimentale, uno studio sarebbe necessario che facca giustizia, “cominciando
dall’imperatore Ottone III, che fu la prima vittima del Sud, fino a Nietzsche,
che ne fu l’ultima”. Con un parallelo fastidioso fra romani e prussiani. La
celebrazione fa di come i tedeschi sanno sfruttare le macchine meglio degli altri.
In tema di imperialismo, Cecil Rhodes è “il primo uomo di una nuova età. Egli
incarna lo stile politico di un lontano futuro occidentale, germanico e
soprattutto Tedesco”. Leibniz indirizza la Francia (Luigi XIV) verso l’Egitto
per alleggerirne la pressione sulla Germania – una Francia con l’anello al
naso, cui il filosofo prospetta il colonialimo (la Francia già possedeva mezzo
mondo) invece che le Fiandre e la Renania. C’è poi “la profonda, intima
dipendenza delle teorie fisiche e chimiche più moderne dalle concezioni
mitologiche dei nostri antenati germanici”. E siamo ancora a p.83. Verso la
fine c’è la Riforma, naturalmente. E la tecnologia: “La polvere da sparo e la
stampa sono inseparabili, sono state scoperte entrambe nel ppriodo dell’alto
gotico e procedono entrambe dal pensiero tecnico germanico” – non basta?
“Rappresentando due grandi strumenti
della tecnica faustiana dell’azione a distanza”. Con I soliti teutonismi: la
filosofia “giunge a compimento” con Kant, etc.
Nella “storia”
germanocentrica un quadro si compone, nei dettagli, di farneticazioni. Seppure
da provincia, da beghino in sacrestia. “Alessandro e Napoleone erano dei
romantici”. Napoleone in particolare. “un Werther”. “Imperialsimo è pura
civiltà”: “L’intelletto è il complement dell’estensione”
- e “proprio in tale forma è l’ineluttabile destino dell’Occidente”. Le
costituzioni sono inutili. Non riconoscono “il grande destino che regge il
mondo dei fatti e con ciò credono di averlo confutato”. È signifiativo che
“nessuna costituzione conosce il denaro quale Potenza politica”. Meno che in
Germania, naturalmente: “Solo in Inghilterra – se si prescinde dalla Gerrmania
prussiana e dall’Austria, ove esisteva sì una costituzione ma con ben poca
influenza di fronte alla tradizione politica – si sono conservate abitudini di
governo”.
Bizzarro, raramente, svagato.
“Un filosofo che non sappia anche afferrare e dominare la realtà non sarà mai
un filosofo di primo rango” suona bene -
anche se Platone, per dire, o Heidegger non ne sono stati capaci. Ma poi
continua: “I Presocratici erano merxcanti e politici in grand stile”.
L’edizione Guanda riproduce
quella Longanesi del 1981 (“un classico del pensiero\ di bruciante attualità”).
Con la vecchia traduzione quindi di Evola (1957), rivista da Rita Calabrese
Conte e Margherita Cottone, autrici anche delle note. Con un’introduzione di
Furio Jesi centrata sulla cultura a Monaco di Baviera, centro allora della
Germania intellettuale, nel primo Novecento. Il solitario Spengler
contestualizzando col cerchio mistico-esoterico del poeta Stefan George, col
conservatore radical Thomas Mann, e altre personalità meno note dello stesso
orientamento. Utili indicazioni dando anche sulla colocazione politica
dell’opera, nel 1923 e dopo. A sinistra
(H. Hesse, Károly Kéreny, Kazanzakis) ci vedono la critica alla civiltà delle
macchine – che però non c’è. A destra ne fanno un capisaldo: “Sia Untergang des Abendlandes”, scrive Jesi
subito, “sia altre successive opere di Spengler (..) sono apparse come profezie
grandiose e congeniali ai loro apologeti nazisti e fascisti, ai protagonisti e
ai consumatori della cosiddetta cultura di destra di ieri e di oggi”. Contro “i
principi folli del 1848”, Spengler stabilisce a metù trattazione.
L’opera fu tradotta solo dopo
la guerra. Evola, che la propose e la tradusse, si concedette “patenti
sostituzioni e postille”, a parere delle curatrici, che le anno rettificate.
Giuseppe Raciti, l’animatore della riedizione Aragno, presenta “il pletorico”
Spengler come l’“apologeta di una civiltà perduta (Kultur) e il fustigatore della corruzione metropolitana (Zivilisation)”. “Il tramonto” proponendo
come “un autentico «viaggio al termine deal notte»”, un tentativo di prevenire
la “dissipazione entropica” dell’Occidente. Si può immaginarlo, certo, ma non
alla lettura.
Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Guanda,
pp.1.584 € 50
Il tramonto dell’Occidente, vol. 1, Aragno, vol 1, pp. VI-677 € 40
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