mercoledì 8 novembre 2017

L’Occidente tramonta in Germania

La storia come prognosi è l’avvio. E “tema filosofico” - “che, se inteso in tutta la sua serietà, implica ogni maggiore problema dell’essere”. Sul presupposto che “ogni vera storiografia è vera filosofia; altrimenti è un lavoro da formiche”. Tema e prognosi sviluppate in fondo alla stessa “Introduzione”, al § 16, sull’“antitesi fra storia e natura”, una “scoperta… che, sola, permette dii cogliere l’essenza della storia”. Antitesi cui l’uomo è antitetico: “L’uomo è elemento e rappresentante dell’universo non solo come membro della natura, ma anche della storia”.
Un progetto ambizioso – la prognosi – ma non una grande scoperta fin qui. Anzi, è il problema dei problemi dal tempo dei “grandi Eleati”, quando si videro costretti ad affermare che “per la conoscenza non esiste il divenire ma soltanto un essere (il divenuto)”. Si considerò la storia come natura, col “grave errore di applicare i principi della causalità, della legge, del sistema, cioè le strutture dell’essere fisso, alle forme dell’accadere”.
Dunque, una storia senza anamnesi? No, anzi, l’anamnesi è accurata, accuratissima – non siamo in Germania? Supportata da tre minuziose tavole “sincroniche”: delle epoche spirituali, delle epoche artistiche, e delle epoche politiche. Ma la diversa “morfologia” che Spengler ha individuato gli consente da subito di vedere “la guerra mondiale che si approssima” non  come “un irripetibile incontro di fattori fortuiti”, ma come “una tipica svolta dei tempi avente da secoli un suo posto biograficamente predeterminato all’interno di un grande organismo storico di una estensione perfettamente circoscrivible”. Cioè l’avvento della Germania. “Il tramonto”, pubblicato sul finire della guerra (il primo volume nell’estate del 1918 a Vienna, il secondo a Monaco, dove Spengler risiedeva, beneficiando di un modesta rendita, nel 1922, con la revisione del primo), è stato concepito e scritto prima – era già finito nel 1914. Morfologia è il sottotitolo del primo volume: “Lineamenti di una morfologia della storia mondiale”.
Un’opera sovrastimata. Stravagante quanto sicumeristica - ispirata. Erudita in senso nazionalista, ancora all’insegna dei primati e dei destini manifesti, mentre si preparava effettivamente una fine dell’Occidente, ma a opera della Germania. Esoterica in parte, malgardo l’imprinting dottorale e i buoni propositi. A un secolo (quasi) data il futuribile è rimasto tale.
Spengler, storico allora dilettante, costruì una grande mitologia. Che alla sua uscita in contemporanea con la sconfitta fu di paradossale sollievo per l’università e l’opinione in Germania. “Il tramonto” fu un successo, e rianimò gli sconfitti con la creazione di una sorta di Grande Destino storico, facendone dei protagonisti. Spengler assunse dignità accademica, più di una università gli offrì un posto, a cinquant’anni. Anche se lui stesso si poneva problemi. E “al “Tramonto” fece seguire un nugolo di precisazioni e revisioni, nelle riedizioni e in una raccolta uscita postuma di “Urfragen”, cinquecento pagine di rimeditazioni.
La Germania sta al centro dell’impianto di tutta l’opera. Come “vanno” le civiltà, è il quesito a metà trattazione. In tre movimenti: “In tre fasi ben distinte: distacco dalla civiltà; pura disciplina formativa di forme civilizzate; irrigidimento”. Con al centro la Germania: “Questo sviluppo (l’irrigidimento) si è per noi già iniziato e io vedo nel coronamento dell’edificio grandioso la missione precipua dei Tedeschi”. E a seguire: “Tutti i problemi della vita, della vita apollinea, magica e faustiana, vengono pensati sino in fondo, tanto che vien fissato in modo definitivo ciò che si sa e ciò che non si sa”. Poi bisognerà applicare “quelle forme a tutta la vita sulla terra”. Un tramonto come occupazione, slargamento – “cinesizzazione” dice Spengler (stabilizzazione).
Spengler, divenuto famoso con questo “Tramonto”, accoglierà dapprima con favore poi con ironia il nazismo. Che però, recita la bandella (Jesi?), “gli rimproverò di non riconoscere i suoi legittimi eredi”. L’unica ipotesi storiografica sostanziosa – non originale – è la polemica contro il Rinascimento, che si è voluto allacciare alla classicità greco-romana saltando i mille anni del Medio Evo, di elaborazione europea, settentrionale, della storia (per questo Cassirer scriverà “L’uomo del Rinascimento”, in polemica col “Tramonto”).
Una divagazione interminabile, insopportabile. Con un solo filo conduttore. Anzi con due. L’uno, semplice, è che le civiltà tramontano espandendosi, permeando il mondo, “cinesizzandolo”. É così, Spengler non ha difficoltà ad ammetterlo. Si prenda, dice, il mondo antico, “l’unico esempio di una civiltà interrotta nel punto della sua piena maturità”: i Germani, di loro si tratta, non ne distrussero che “il tratto esterno delle forme, sostituendo ad esso la vita della loro pre-civiltà”. Le culture non scompaiono, hanno uno “strato profondo, «eterno»”. E così il mondo classico sussiste – anche se in posti strani,”nella Francia meridionale, nell’Italia meridionale e nella Spagna settentrionale” (con una notazione preziosa, controcorrente sugli studi tedeschi all’epoca, che ritroveremo tal quale in Ernesto de Martino: “Nelle feste religiose dell’Italia meridionale si ritrovano ancor oggi culti antichi e pre-antichi”).
L’altro filo conduttore è il primatismo. Fastidiosissimo, tanto più nel Novecento, in una guerra scatenata a perdere, in un testo che si vuole di filosofia della storia. Gioacchino da Fiore è “il primo pensatore della statura di un Hegel” – e lo è perché sorretto dal “sentimento di un Gotico”. Contro la classicità e l’epigonismo rinascimentale, uno studio sarebbe necessario che facca giustizia, “cominciando dall’imperatore Ottone III, che fu la prima vittima del Sud, fino a Nietzsche, che ne fu l’ultima”. Con un parallelo fastidioso fra romani e prussiani. La celebrazione fa di come i tedeschi sanno sfruttare le macchine meglio degli altri. In tema di imperialismo, Cecil Rhodes è “il primo uomo di una nuova età. Egli incarna lo stile politico di un lontano futuro occidentale, germanico e soprattutto Tedesco”. Leibniz indirizza la Francia (Luigi XIV) verso l’Egitto per alleggerirne la pressione sulla Germania – una Francia con l’anello al naso, cui il filosofo prospetta il colonialimo (la Francia già possedeva mezzo mondo) invece che le Fiandre e la Renania. C’è poi “la profonda, intima dipendenza delle teorie fisiche e chimiche più moderne dalle concezioni mitologiche dei nostri antenati germanici”. E siamo ancora a p.83. Verso la fine c’è la Riforma, naturalmente. E la tecnologia: “La polvere da sparo e la stampa sono inseparabili, sono state scoperte entrambe nel ppriodo dell’alto gotico e procedono entrambe dal pensiero tecnico germanico” – non basta? “Rappresentando  due grandi strumenti della tecnica faustiana dell’azione a distanza”. Con I soliti teutonismi: la filosofia “giunge a compimento” con Kant, etc.
Nella “storia” germanocentrica un quadro si compone, nei dettagli, di farneticazioni. Seppure da provincia, da beghino in sacrestia. “Alessandro e Napoleone erano dei romantici”. Napoleone in particolare. “un Werther”. “Imperialsimo è pura civiltà”: “L’intelletto è il complement dell’estensione” - e “proprio in tale forma è l’ineluttabile destino dell’Occidente”. Le costituzioni sono inutili. Non riconoscono “il grande destino che regge il mondo dei fatti e con ciò credono di averlo confutato”. È signifiativo che “nessuna costituzione conosce il denaro quale Potenza politica”. Meno che in Germania, naturalmente: “Solo in Inghilterra – se si prescinde dalla Gerrmania prussiana e dall’Austria, ove esisteva sì una costituzione ma con ben poca influenza di fronte alla tradizione politica – si sono conservate abitudini di governo”.
Bizzarro, raramente, svagato. “Un filosofo che non sappia anche afferrare e dominare la realtà non sarà mai un filosofo di primo rango” suona bene -  anche se Platone, per dire, o Heidegger non ne sono stati capaci. Ma poi continua: “I Presocratici erano merxcanti e politici in grand stile”.
L’edizione Guanda riproduce quella Longanesi del 1981 (“un classico del pensiero\ di bruciante attualità”). Con la vecchia traduzione quindi di Evola (1957), rivista da Rita Calabrese Conte e Margherita Cottone, autrici anche delle note. Con un’introduzione di Furio Jesi centrata sulla cultura a Monaco di Baviera, centro allora della Germania intellettuale, nel primo Novecento. Il solitario Spengler contestualizzando col cerchio mistico-esoterico del poeta Stefan George, col conservatore radical Thomas Mann, e altre personalità meno note dello stesso orientamento. Utili indicazioni dando anche sulla colocazione politica dell’opera, nel 1923 e dopo. A  sinistra (H. Hesse, Károly Kéreny, Kazanzakis) ci vedono la critica alla civiltà delle macchine – che però non c’è. A destra ne fanno un capisaldo: “Sia Untergang des Abendlandes”, scrive Jesi subito, “sia altre successive opere di Spengler (..) sono apparse come profezie grandiose e congeniali ai loro apologeti nazisti e fascisti, ai protagonisti e ai consumatori della cosiddetta cultura di destra di ieri e di oggi”. Contro “i principi folli del 1848”, Spengler stabilisce a metù trattazione.
L’opera fu tradotta solo dopo la guerra. Evola, che la propose e la tradusse, si concedette “patenti sostituzioni e postille”, a parere delle curatrici, che le anno rettificate. Giuseppe Raciti, l’animatore della riedizione Aragno, presenta “il pletorico” Spengler come l’“apologeta di una civiltà perduta (Kultur) e il fustigatore della corruzione metropolitana (Zivilisation)”. “Il tramonto” proponendo come “un autentico «viaggio al termine deal notte»”, un tentativo di prevenire la “dissipazione entropica” dell’Occidente. Si può immaginarlo, certo, ma non alla lettura.
Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Guanda, pp.1.584 € 50

Il tramonto dell’Occidente, vol. 1, Aragno, vol 1, pp. VI-677 € 40

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