Tremila
pagine della Procura di Roma, tenuta da tre siciliani, per appellarsi contro i
giudici del Tribunale di Roma che al processo “Mafia Capitale” hanno escluso
l’aggravante mafiosa. Su toni di
dileggio, come se i giudici fossero incapaci o collusi con gli accusati. Questa
voglia di imporre la mafia a tutta l’Italia da che nasce? Solo per la carriera?
Perché la mafia “risolve” tutto?
Seume,
“Spaziergang nach Syrakuse”, il libro della “passeggiata verso Siracusa” che si
pubblicò postumo, vent’anni dopo la morte (Seume è del 1763-1810), e non di
traduce, è uno degli “Uomini tedeschi” di Walter Benjamin. Era per Benjamin la
figura, nel linguaggio novecentesco, dell’“intellettuale progressista” – così Adorno,
che ha curato questo Benjamin, accenna nella
nota su Seume. Ma la “Passeggiata” era per Benjamin il libro che avrebbe voluto
scrivere – uno dei tanti: quello sulla ricerca di libertà attraverso i contatti
con i popoli oppressi, dal potere o dalla miseria.
Seume
è immaginato scrivere al marito della sua ex fidanzata – Benjamin
autorappresenta i suoi “Uomini tedeschi” mediante una lettera che loro stessi
scrivono. “Nella «Passeggiata», Benjamin premette alla lettera, Seume “superò
gli strascichi di una relazione infelice con l’unica donna cui – sia pure non
intimamente – si era accostato”. Aveva elaborato il lutto dell’impossibile
amore sul monte Pellegrino, sopra Palermo: “Avendo tirato fuori l’amuleto col
ritratto della donna, si accorse di
colpo che era in frantumi, e allora gettò nel precipizio ritratto e
montatura”. Una familiarità che oggi non
ci potrebbe essere, tra Palermo e un intellettuale tedesco.
Bufale
(anti)mafiose
La
“Terra dei fuochi” è innocente. Carmine Schiavone un falso pentito di camorra,
un malato terminale che sceneggiava. Preti e scrittori si sono arricchiti a
spese della povera gente, condannata all’inattività e - le mamme - alla crisi di nervi. Un generale si è
infiorettato in tv che aveva trovato “tracce evidenti” di piombo – in un
poligono da tiro…
Un
gruppo di una quarantina di istituti pubblici di monitoraggio e ricerca che per
tre anni hanno censito e analizzato prodotti e produttori della “Terra dei
fuochi” e della Campania tutta li hanno trovati innocenti. Su 30 mila
campionamenti effettuati, presso 10 mila aziende agroalimentari, hanno riscontrato
solo sei csi di “positività”, di contaminanti chimici o microbiologici superiori
al consentito. Meno, molto meno, che nella concorrente pianura padana. O in qualsiasi supermercato.
Si
parla di fake news perché è la moda
negli Usa, ma una bufala gigantesca è stata creata e ha imperversato qui da
noi, per almeno quattro anni, da quando Saviano ne fece il fulcro del suo
romanzo “Gomorra” – su alcuni dei “Rapporti Ecomafie” di cui Legambiente si
diletta invece di proteggere l’ambiente. E anche oggi che il rapporto del gruppo
di ricerca è stato pubblicato, con tutti i dati, nessuno ne parla, solo “Il
Foglio”. La cosa più dolorosa, il dispetto della verità
Anzi
no, la cosa più dolorosa è che Napoli e il Sud ci hanno inzuppato il pane. Stupidamente,
si direbbe, ma opportunisti, per grossi benefici. Preti e scrittori del Sud si
sono magnificati con questa assurda storia, su tutti i giornali su tutte le tv,
sui banchi delle librerie.
La
cosa non nasce con Schiavone. Le prove erano state fate altrove, nei grandi
giornali e alla Rai, con le bufale dei bidoni radioattivi sommersi al largo di
Cetraro in Calabria. Dopo quelli sotterrati in Aspromonte, che nessun geiger ha
rilevato. Tutto si può dire, ma solo al Sud. Capifila quelli del Sud.
Dire
inattività però è sbagliato. Gli agricoltori della Terra di Lavoro, la più
fertile e meglio organizzata area di produzione ortofrutticola, hanno continuato
a lavorare, ma hanno dovuto vendere a prezzi ribassati fino al 10 per cento del
precedente valore. Una speculazione ignobile.
Delieide
Siamo un paese dell’interno, il più alto
dell’Aspromonte, che non è una montagna agevole, aperti a ventaglio sulla valle
delle Saline, ora piana di Gioia Tauro, rifugio
nei secoli di coloni greci in fuga, da Bova, dalla Piana, di ebrei di varia
origine, di corsari arabi disertori, e di qualche raro commerciante in cerca di
requie, magari dai debiti. Tutti debitamente convertiti. E, chissà, in pace,
non abbiamo tradizioni di faide. Si può ancora tenere di giorno la porta aperta. Si
può dormire la notte d’estate con le finestre aperte, non ci sono zanzare.
Anche se i pipistrelli si lasciano talvolta accecare dalla luce e irrompono in
casa.
Siamo un borgo come tanti, di case
abbandonate in rovina, di scheletri in cemento armato dai tondini arrugginiti,
e di quattro piani di palazzi coi muri di mattoni forati a vista e tavolati
alle aperture, di cui il piano terra, forse, è abitato. E di sopraelevazioni e
avanzamenti di prospetto per soperchiare il vicino. Con un mutuo da pagare alla
banca, anche due, che non consente di finire l’opera e non fa dormire la notte
– le gastriti acute, croniche e nervose sono diffuse, e ci sono casi di
alcolismo. Non siamo un paese simpatico, l’accoglienza è, esageratamente, solo
familiare, per il resto la domanda è: “Cu’ è chissu?”, chi è costui. Nessuno cammina,
tutti girano in macchina, anche solo per fare pochi metri. Per non incontrare
persone e doverci parlare. I marciapiedi latitano. Nn ci sono nemmeno sensi unici,
malgrado le strade strette. Volendo fare una passeggiata a piedi nel tranquilli
borgo di montagna bisogna camminare in avanti e insieme a ritroso, per
salvarsi, tra una macchina e l’altra, impazienti, giustamente. Ma siamo reputati,
siamo, un paese avanzato, il più intelligente della zona: più intellettuale e
professionale, artistico, commerciale, e più ricco. Ricco probabilmente in
assoluto, la Posta e la banca gestiscono almeno 40 milioni di risparmi – forse
50. Che per circa 800 famiglie fa 40-60 mila a testa, un gruzzolo che pochi
italiani hanno. Una ricchezza – risparmio – anche agevole: stipendi e retribuzioni
sono nazionali, contrattuali, le tasse sul lavoro autonomo non si pagano, a
partire dall’Iva, e il costo della vita è un terzo di quello di Roma.
Ma non siamo un paese simpatico, pur
avendo soldi e intelligenza. Non presentiamo un bell’aspetto, pur avendo
ereditato una collocazione gloriosa, al collo di due vallate immerse nel verde,
quello grigio argento degli ulivi sottostanti, eqlleo smeraldino d castagni e
abetaie sopsrate. Una temperatura mite. Un clima secco.
Eravamo laconici e operosi, applicati a
lavori anche duri: terrazzamenti
dei tanti dirupi, bonifiche pietra su pietra, gli orti rubati alle piene, alle
pietraie. In piedi alle cinque, a letto alle otto. Per l’applicazione che viene
dal bisogno, in zone anche ubertose, rese sterili dall’incuria di padroni
lontani, a volte perfino sconosciuti. E sempre
proiettati verso l’esterno. Desiderosi di viaggiare, scoprire – allontanarsi?
Anche quando i mezzi erano scarsi, la corriera, qualche camion fumante. Per
lavoro, per gli studi, per le cure, per semplice diversivo.
Emigravamo
in massa, a fine Ottocento, ai primi del Novecento, fino alla guerra, negli
Stati Uniti. Google scarica centinaia di omonimi dai registri di Ellis Island,
il punto d’ingresso sotto la statua della Libertà, alcune diecine di omonimi
completi, di nome e cognome, emozionanti, nella grafia pur incerta degli
ufficiali americani dello stato civile, o dei moderni trascrittori online di
quei registri. Alcuni corredati del nome del paese come luogo di provenienza,
altri indicano genericamente la Calabria, o l’Italia del Sud - un omonimo è
stato anche abate, nel secondo Ottocento, e massone, tesserato. Nei paesi la
vita è varia.
Siamo
emigrati fino al 1955, anche al 1960. C’è gente che nel 1948, 1949, 1950 andava
in Argentina e Uruguay. E negli anni successivi in Australia e Canada, oltre
che a Ventimiglia e in Provenza per i fiori e i lavori della campagna. La
dromomania si può dire connaturata, se è una mania e quindi un male. Abbiamo
poi saltato l’emigrazione in Europa, degli anni 1950-1960, il lavoro in miniera
o in fabbrica non piace. Ma abbiamo avuto forte un’emigrazione intellettuale,
del 70-80 per cento dei laureati, tre su quattro, quattro su cinque. La cugina
L. a dieci anni, nel 1954, non era stata a Scido, che è a quattro chilometri,
meno per il sentiero che ancora si praticava. Ma era già stata a Polsi,
quattro-cinque ore di sentiero non agevole, per un avventuroso pellegrinaggio
di due giorni e una notte alla Madonna della Montagna. Dei compagni alle
elementari, una trentina abbondante, solo cinque sono rimasti al paese, e due
delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o
ritardatario. Dei nutriti collaterali per parte paterna, quarantuno primi
cugini, più quattordici zii, solo nove sono rimasti in paese, compresi i
genitori, nove su cinquantacinque.
Questo è un bene e un male: l’emigrazione rappresenta una cesura.
Dai racconti di chi è stato a trovare i fratelli, le sorelle, i cugini, negli
Stati Uniti, in Australia, in Canada, non emergono mai novità adattate al
proprio ordinario, alla propria vita di ogni giorno. Benché tra gli emigrati le
storie di successo abbondino. Almeno tre imprese edili di primaria importanza
sono state create da compaesani emigrati in Hamilton, Ontario, Canada, dove si
contano più di un centinaio di famiglie del paese. Portate al successo dagli
stessi emigrati, prima e meglio che dai loro figli. Ottime posizioni,
nell’edilizia e nella lavorazione del maiale (prosciutti, insaccati), anche a
Perth, Australia, dove un’altra colonia si è creata di dimensioni analoghe. E a
Melbourne, la metropoli australiana, dove il circolo dei compaesani organizza
periodiche feste con oltre cinquecento convitati di qualità. Lo stesso gli
emigrati: nessuno ritorna. C’è la memoria, c’è magari il vanto delle origini,
ma la visita è sempre breve, spaziata, ogni cinque-dieci anni, e alla fine
spazientita. Alfredo Strano, che in Australia è diventato scrittore bilingue, e
caso di studio all’università, si è trovato a un occasionale ritorno più
spaesato di prima.
D’altra parte, se c’è il vanto della storia, c’è anche la memoria
di una vita, illudersi non è possibile, quella realtà resta soverchiante. E noi
andavamo a scuola in aule d’occasione, ogni anno una diversa, il basso di
Domenico Moscatelli, un salone del palazzo Cordopatri, l’abbaino dell’ex Casa
del fascio, gelido. Fino alla quinta elementare. E dopo di noi molti altri,
fino al 1961 e alla buonissima scuola media di Fanfani, che costruì anche
l’edificio scolastico, imponente, duraturo, e poi ancora per molti anni per
andare alle superiori, i ragazzi si sono dovuti alzare alzati coscienziosi alle
cinque, le sei del mattino, per prendere le corriere per le scuole medie e
superiori, da cui tornavano alle tre, le quattro del pomeriggio (è da pochi
anni che ci sono gli scuola bus della Regione). Riempivamo i collegi, maschili
e femminili, di Messina, Salerno, Roma. Avendone le risorse.
Non un’infanzia infelice, sia detto per inciso, a parte il freddo
– difficilmente l’infanzia in paese lo è. Vivendo liberamente fuori casa, e in
gruppo senza segreti. C’erano
sentieri allora per arrivare ovunque, sotto i castagni e gli ulivi, o scavati
nelle marne, che davano ai ragazzi il senso di attraversare la realtà, come
Alice nel paese delle meraviglie. Fino alle acque gelide della Pietra Grande,
che vigilava una pozza nella quale era d’obbligo bagnarsi. O seguendo la
fiumara Petrilli fino a una serie di mastre
gorgoglianti, le canalizzazioni scoperte che portavano l’acqua agli orti –
finendo, ogni volta col fiato sospeso per i sicuri rimbrotti, a Demisuli al
frantoio del nonno, la “machina di Micuzzo”, il bisnonno, mosso ancora dalla
ruota ad acqua. Era ancora il tempo in cui il frantoio – “machina” - andava ad
acqua. La gigantesca ruota che l’acqua cadendo faceva girare, che a sua volta,
con un gioco di pulegge e ruote dentate faceva girare la macina pesante sulle
olive. E la pressa a spalla, una gigantesca vite ricavata da un tronco di
rovere, che pressava i fiscoli di pezzolo, gemendo avvitata da un asse alle cui
estremità due operai spingevano a braccia tese dapprima e poi con la forza
delle spalle e del tronco.
Siamo due paesi distinti, benché unificati da quasi
centociquant’anni anche noi, Pedavoli e Paracorio. Greci dunque anche nel nome
originario. Col segno dato da Paracorio, più nervosa, irascibile anche,
volubile. Per una costante alternanza, di accensioni, entusiasmi, e improvvisi
cali di tensione, critiche e autocritiche distruttive. Perché siamo volubili.
Così, se persistono le vecchie anime tribali, abbiamo cambiato in due
generazioni un paio di volte assetto sociale ed economia - la geografia
economica può mutare rapidamente, e anche all’improvviso.
Eravamo famosi per il miele, dice
Lombroso nel 1862. Con Bova. Per i fagioli di Spagna: “Godono di molta fama i
fagioli detti «pappaluni»”, notano Malvezzi e Zanotti Bianco nel 1909 - quando
celebravamo 17 feste, tante ne contano stupiti i due studiosi filantropi. Come
per i fagiolini corallo di speciale gusto, i vajaneji. E per i boschi. Ma l’industria del legno è sempre meno
attiva. Non ci sono più gli ebanisti, che pure avevano una tradizione consolidata.
E negli immaginosi anni Cinquanta puntavano a trasformarsi in industria. Ci
sono ancora le api, ma non c’è più il castagno – proprio ora che il castagno,
in tutte le sue forme, anche le foglie, è un’industria. Dopo esserne stati per
secoli il centro, quando l’economia era di sopravvivenza o povera. Con la
castagna ‘nserta di eccezionale
pregio, maestosa, durevole, tutto l’inverno se ammarronata – messa in acqua e poi asciugata. Mentre le caldarroste
che ora si vendono agli angoli delle città all’unità, piccole e gobbe benché
piene, le castagne curce, erano
destinate ai porci. Per non dire dei funghi, di cui siamo stati e tuttora siamo
grande centro di raccolta ma a grado zero di utilizzo, se non domestico. Lo
spreco forse maggiore della insopprimibile, benché dannosa ormai all’occhio dei
più, economia suntuaria o della dépense,
che l’antropologia rileva tanto nelle corti principesche che negli stati di
indigenza: il consumo spensierato. Tanto più se si considera che il porcino
dell’Aspromonte, un tempo famoso nel Regno, dalle Madonie a Napoli, è sempre in
considerazione elevata nell’industria conserviera svizzera e padana per le
qualità organolettiche, in tutte le sue tipologie, muntagnolu, schiaveju, vavusu, cardararu. Perfino l’acqua latita. Che pure abbonda, e di vario
sapore – le acque di sorgente sono una specialità dell’Aspromonte: dopo il
terremoto del 1908 Malvezzi e Zanotti Bianco contarono in paese 14 fontanelle,
ognuna di sorgiva.
L’ulivo c’è ancora. Adeguato ai tempi,
con cooperative e industrie attente alla qualità e al marketing. Che
s’industriamo di far perdere il vizio del lampante,
di considerare l’olio locale troppo acido, amaro, pesante, e neppure genuino,
buono insomma per il lume – nel quale molti oli del supermercato peraltro non
brucerebbero, contenendo talvolta solo il 4 per cento di olio d’oliva (il
disciplinare europeo lo consente). Ma non ci sono più i frantoi, ce n’erano una
diecina. È mutato per conseguenza l’assetto sociale. Avevamo una borghesia
intraprendente legata all’ulivo, con presenze diffuse e talvolta condizionanti
in tutta la Piana, Scido, Santa Cristina, Oppido, Varapodio, Laureana,
Cosoleto, Palmi, una ventina di aziende, molte provviste di frantoio, che
davano lavoro a tutti, seppure duro, tutto l’inverno. Con imprese edili in
grado di concorrere in ambito regionale e perfino nazionale. È fortissimo ora
il pendolarismo, mattina e sera. Non solo per le scuole della piana. Ma anche
per lavoro, da Gioia a Reggio: gli occupati stabili fuori paese superano i duecento
e si avvicinano ai trecento.
E
dalla zappa, che piegava in due, siamo passati all’indolenza. Che c’era ma
era borghese, da figlio di mamma - le
mamme più di oggi erano determinanti. Del secondo o terzogenito maschio avviato
agli studi per non dividere la proprietà, avvocati o medici che non avendo
concluso gli studi passavano il resto della vita tra i cento passi al circolo e
le chiacchiere prima di pranzo e di cena, e lunghe dormite. Accuditi talvolta
da sorelle nubili altrettanto risentite, e tuttavia restie ad affrontare una
vita propria di fatiche, tra figli, case e marito. Ora è il sogno dei molti,
c’è il “bamboccione” anche qui. Il notabile con l’unghia lunga del mignolo,
falso laureato, vero nullafacente, è sostituito dalla rotondità dell’adolescente
eterno. Entro l’albagia dei diritti cui il sottogoverno confina i più – la
politica del posto, la pensione o il sussidio, a carico dei pochi che lavorano.
Rotondo anche nell’epa, nell’attesa dell’impiego cui si sa incapace – è il
vitellone due generazioni dopo, o tre: è questo il ritardo. Tra quelli che
restano, e non fanno i pendolari. Che non sono più i pochi, segnati a dito.
Anche per questo quelli che se ne vanno non sanno tornare, troppa indolenza:
incertezza, superficialità, approssimazione.
Alla
fatica e alla strafottenza è subentrato diffuso l’oblomovismo: lamentarsi di
tutto, estranei e anzi renitenti all’azione. La reattività c’è sempre
dominante, istantanea, violenta. La collera breve, che può essere assassina
tanto è incontrollata. Ma non la prestazione costante, progettuale, applicata.
C’è se essa risponde al “colpo di genio”, l’agnizione di un destino in un
momento di astri favorevoli, di ritmi ascendenti, di ciclotimia. Ma anche in
questi casi più spesso l’applicazione è breve: l’entusiasmo non è mai stato il
nostro forte, piuttosto il senso critico. Si direbbe una civiltà femminile,
magno greca? locrese?, non fosse di uomini robusti e pelosi. Ma indecisi, ecco.
leuzzi@antiit.eu
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