Al
capitolo dedicato ai primi siciliani della sua “Storia della letteratura
italiana”, De Sanctis dice che “con lo scemare della coltura prevalgono i
dialetti”.
In
una panoramica di “ciò che rimane” del mitico West, su “La Lettura”, Cristina Taglietti
mette per l’Italia un il Sud: “Il Sud Italia è un po’ il nostro West, almeno
dal punto di vista di un’editoria che in un Meridione dagli echi ancora ancestrali
cerca, negli ultimi tempi, il suo besteller al costo di un certo bozzettismo”.
Approccio interessante. Ma poi lo esemplifica con on Cognetti, Righetto,
Meacci, tra le Alpi cioè, e l’Appennino umbro-toscano.
Il manicomio del
Sud
Alda
Merini dice spesso in alcune delle sue erratiche memorie gli anni trascorsi a
Taranto “quattro anni felici”. Sposa di Michele Pierri , il chirurgo poeta cui aveva
fatto una corte spietata. Di lettere, poesie, invii, cui lui non rispondeva,
qualche volta si esimeva con una telefonata interurbana. Finché non acconsentì al
matrimonio, entrambi vedovi, lei cinquantenne lui ottantenne.
Ma
sugli anni di Taranto costruisce anche una leggenda, che culmina nell’internamento
nel “manicomio di Taranto” – Alda Merini
era reduce, come si sa, da una serie di internamenti, per una diecina di anni,
nel manicomio di Milano. Una storia, questa del manicomio di Taranto, che Ambrogio
Bordani, confidente della poetessa per “Il suono del’ombra”, così sintetizza: “Pierri
si ammala, viene ricoverato. Lei ripiomba dentro una spirale di crisi violente
e viene internata in un manicomio a Taranto.
Il icovero è breve ma traumatico: un manicomio del Sud in quegli anni
doveva essere un’esperienza ancora più drammatica della precedente”.
Non
del tutto inventato. In “Delirio amoroso” è la stessa Alda Merini a ricordare,
seppure in un’autoanalisi precisa: “Mi ero innamorata, ma in modo così
distruttivo e totale da perdere l’identità.
E quando mi sottrassero lui persi anche il principio del mio amore, il
che significa, virtualmente, perdere la ragione di vita… Mi addentrai così,
quasi stupidamente, nella psichiatria tarantina”.
Se
non che a Taranto non c’è un manicomio, non c’è mai stato. Silvano Trevisani,
tarantino ma obiettivo, ha ricostruito quell’amore e gli anni di Taranto, con pezze
d’appoggio, di tutt’altra natura e colore. Alda Merini risorge alla poesia dopo
l’eclisse nel manicomio milanese con “L’altra verità”, una raccolta che fu messa
a punto da Pierri, aiutato dal figlio Pucci, e da Giacinto Spagnoeltti, altro tarantino,
già “scopritore” di Alda Merina sedicenne, il quale aveva confidato al medico
poeta molti materiali ricevuti da lei. Pierri, Spagnoletti e un altro
tarantino, il pittore De Mitri, s’incaricarono della pubblicazione e della
ricezione. In “Vuoto d’amore” Alda Merini riconosce il debito con Pierri. Né ha
mai negato il corteggiamento serrato cui lo sottopose per quasi cinque anni,
con lettere a volte quotidiane. Nelle quali le è anche capitato di lamentarsi
così: “A Milano non conosco nessuno”, circondata dalla “malignità della gente”.
A Taranto visse negli agi.
Ebbe
comportamenti strani anche a Taranto, come Spagnoletti documenta in “I nostri
contemporanei”. Spesso usciva sola, e tornava tardi. Dopo aver girato per bar e
bettole, a fumare, concionare e talvolta a bere. Ma ben accolta dalla numerosa
figliolanza di Pierri – padre di dieci figli – malgrado lo sgomento del suo
secondo matrimonio a 84 anni. Specie da
Pucci, e anche da
Mario
e Lucio.
Motto
Pierri, rientrata a Milano, benché destinataria per testamento di un terzo del
patrimonio disponibile del marito, Alda Merini continuò ancora a sentirsi
legata a Taranto. Scrisse anche al sindaco, per chiedere per sé la cittadinanza
onoraria, e per Michele Pierri un monumento. Continuò ad avere contatti con i Pierri
figli. Che continuarono a trattarla con rispetto. Solo tardi, nel dicembre
2003, lamenterà la sfortuna di stare al Sud. La “sfortuna”, scriver à a Pasquale
Pinto, un operaio poeta, tarantino, “è stare nel magnifico Sud dove tutto viene
bollito dallo scirocco immorale di incomprensione reciproca”. Una critica che
ogni tarantino, e meridionale, sottoscriverebbe.
La
vera storia di Michele e Alda è pre-leghista, la ricostruzione post.
Calabria
Davide Nicola
lascia il “Crotone” dopo (sole) quattro sconfitte di fila, e dice alla
“Gazzetta dello
Sport”: “Al netto
del calore della gente, qui non funziona niente. Nessuno rivendica i propri
diritti.
Altrove si protesta, qui nessuno lo fa per
i disservizi”.
Però, prima, del club lodava “il progetto”.
Digitando
“Affruntata”, per il rito della Settimana Santa, viene fuori “Afruntata e
‘ndrangheta”. Ma di qualsiasi cosa che si digiti di calabrese, google subito
offre la versione ‘ndrangheta. ‘Nduja?
‘Nduia e ‘ndrangheta. Cipolla di Tropea? Tropea e ‘ndrangheta.
Reggio
Capitale, si può dire vocazione primigenia della città, da sempre, da quando fu
decisa la creazione di due Calabrie per l’amministrazione del Regno, con una
Ulteriore staccata da Cosenza.
“La
Lettura” presenta i taccuini dal carcere del brigante Musolino dicendolo “nato
in Calabria”. Non si direbbe di altro brigante nato nelle Marche, o in Romagna.
È il nome, Calabria, talmente evocatore? È l’ignoranza dei luoghi, la Calabria
come terra incognita?
La
prima emigrazione calabrese dalla Calabria, terra per antonomasia emigrazione
(abbandono), fu di personale qualificato, di scultori (scalpellini) e muratori,
verso Messina e Palermo, il porto e la città di corte, nel Quattocento – la prima
documentata.
Reggio
distrutta dai turchi fece molta impressione a Pieter Breughel il Vecchio,
quando ci passò nel suo soggiorno italiano, 1552-1554. Ne fece un ritratto
terribile nel disegno “Veduta di Reggio”, della città in fiamme per un attacco
dei turchi. Di un altro disegno perduto resta un’incisione in rame opera
posteriore di Frans Huys, “Combattimento navale”, che ha una riproduzione precisa
dello Stretto. immaginato nello Stretto.
“L’apocalittica visione di Reggio devastata
dalle incursioni piratesche”. Commenta wikipedia, “impressionò talmente Bruegel
da costituire un tema ricorrente nei suoi dipinti successivi”.
Fra
le tante tasse escogitate da Napoli, la Calabria pagava un “cunnatico”, l’autorizzazione
a sposarsi – da cunnu, dialettale per
l’organo sessuale femminile. Cinque carlini annui, “per il piacere ricevuto”.
La
tassa si pagava anche in morte del coniuge. In misura ridotta, 25 grani l’anno
(due carlini e mezzo). Per non pagarla, il vedovo o la vedova doveva presentare
una “memoria particolare”, sulla scarsa qualità delle performances a letto del defunto\a.
È
sempre stata immaginata, benché ben reale e anzi rocciosa. Dai viaggiatori
inglesi e francesi, più qualche tedesco e qualche svizzero, che la immaginavano
per i loro lettori. Dai meridionalisti, inclusi i calabresi. E ora dai
milanesi.
Non
dai veneti, padovani, trevigiani, che invece comprano e rivendono a buon prezzo
in tutti i paesi, Trebisacce, Rocca Imperiale, Amendolara, piccolo ricco business.
“Destino dei popoli meridionali è di camminare…
L’uomo meridionale cammina”, decide Savinio, che si voleva greco, mediterraneo,
a un certo punto, ascoltando un compositore spagnolo, in una delle sue cronache
musicali. Sarà stato vero, ora non più, non in Calabria. Nessuno cammina. Si va
in macchina nei paesi anche coi figli a scuola, a cento metri da casa. Anche
dal fruttivendolo, a cinquanta. Si formano ingorghi paurosi nei paesi calabresi,
che non hanno strade larghe abbastanza.
leuzzi@antiit.eu
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