È
il primo romanzo di Philip Roth, a 26 anni, subito premio National Book, e
questo è il solo interesse alla (ri)lettura: come si riconosce uno scrittore. In
una nuova traduzione, di Vincenzo Mantovani, emendata (poco) rispetto a quella
1960, di Elsa Pelitti – è rimasto pure il “negro”, benché non politicamente corretto.
“Goodbye
Columbus” uscì in volume corredato di cinque racconti lunghi, come nelle traduzioni.
Romanzo e racconti (quattro ebraici e uno italiano, “Non si può giudicare un
uomo dalle canzoni che canta”) sul genere della letteratura etnica, di ebrei che
parlano di ebraismo, come già era praticata negli Usa da Singer, Bellow,
Malamud, Salinger. Ma di ebrei americani, anzi di New York-Newark. Che
vorrebbero esserlo e non esserlo – essere semplici cittadini, al pari dei
protestanti e dei cattolici.
Il
romanzetto fu proposto e viene riproposto come una satira irriverente della
borghesia americana, dell’American Dream, della prosperità, etc. No, è di una
società che si dirà suburbana, Newark sobborgo di New York, in una rete di
relazioni ebraiche conchiusa, come ritagliata dalla città e dal apese: non
succede nulla all’infuori di una o due famiglie. Dissacratore, è vero, ma della
“tribù” ebraica, della quale è invece diventato – era destianto a diventare –
il celebrato celebratore, il beniamino. Araldo di un genere che arriva ai film
di Woody Allen e a molta comicità cabarettistica e teatrale – nonché a un
discreto filone romano, sul passaggio dal ghetto ai Parioli.
La
lettura è facilitata dal ritmo veloce, con molto dialogato. Il giovane Ph. Roth
sembra un vecchio del mestiere, un maestro. Sul genere svagato, varato da
Salinger con enorme successo qualche anno prima – più su quello dei “Nove
racconti” che del “Giovane Holden”. Prodigiosamente inconsistente per un paio
di centinaia di pagine. Una sorta di storia “ferrarese”, senza la fine della
storia in agguato (l’incubo posteriore della fine della storia), tra nuotate,
tennis, corsa, palloni: il fascino qui è della “frutta dei Patimkin”, i Finzi
Contini locali, che ne stipa il frigorifero, per una sana vita sportiva. Ci
sono anche Margaret Sanger e Mary McCarthy, che mettono i pessari alle
fanciulle – il diaframma anticoncezionale prima dela pillola. “Columbus” è il
campus dell’università di Stato dell’Ohio, dove il cognato del protagonista si
è immortalato nel basket.
Una
satira, ma con l’occhio di un satirico improbabile: un dramma sul diaframma. Davvero.
Philip
Roth, Goodbye Columbus, Einaudi, pp.
247 € 19,50
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