venerdì 29 dicembre 2017

Il dramma del diaframma

È il primo romanzo di Philip Roth, a 26 anni, subito premio National Book, e questo è il solo interesse alla (ri)lettura: come si riconosce uno scrittore. In una nuova traduzione, di Vincenzo Mantovani, emendata (poco) rispetto a quella 1960, di Elsa Pelitti – è rimasto pure il “negro”, benché non politicamente corretto.
“Goodbye Columbus” uscì in volume corredato di cinque racconti lunghi, come nelle traduzioni. Romanzo e racconti (quattro ebraici e uno italiano, “Non si può giudicare un uomo dalle canzoni che canta”) sul genere della letteratura etnica, di ebrei che parlano di ebraismo, come già era praticata negli Usa da Singer, Bellow, Malamud, Salinger. Ma di ebrei americani, anzi di New York-Newark. Che vorrebbero esserlo e non esserlo – essere semplici cittadini, al pari dei protestanti e dei cattolici.
Il romanzetto fu proposto e viene riproposto come una satira irriverente della borghesia americana, dell’American Dream, della prosperità, etc. No, è di una società che si dirà suburbana, Newark sobborgo di New York, in una rete di relazioni ebraiche conchiusa, come ritagliata dalla città e dal apese: non succede nulla all’infuori di una o due famiglie. Dissacratore, è vero, ma della “tribù” ebraica, della quale è invece diventato – era destianto a diventare – il celebrato celebratore, il beniamino. Araldo di un genere che arriva ai film di Woody Allen e a molta comicità cabarettistica e teatrale – nonché a un discreto filone romano, sul passaggio dal ghetto ai Parioli.
La lettura è facilitata dal ritmo veloce, con molto dialogato. Il giovane Ph. Roth sembra un vecchio del mestiere, un maestro. Sul genere svagato, varato da Salinger con enorme successo qualche anno prima – più su quello dei “Nove racconti” che del “Giovane Holden”. Prodigiosamente inconsistente per un paio di centinaia di pagine. Una sorta di storia “ferrarese”, senza la fine della storia in agguato (l’incubo posteriore della fine della storia), tra nuotate, tennis, corsa, palloni: il fascino qui è della “frutta dei Patimkin”, i Finzi Contini locali, che ne stipa il frigorifero, per una sana vita sportiva. Ci sono anche Margaret Sanger e Mary McCarthy, che mettono i pessari alle fanciulle – il diaframma anticoncezionale prima dela pillola. “Columbus” è il campus dell’università di Stato dell’Ohio, dove il cognato del protagonista si è immortalato nel basket.
Una satira, ma con l’occhio di un satirico improbabile: un dramma sul diaframma. Davvero.
Philip Roth, Goodbye Columbus, Einaudi, pp. 247 € 19,50


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