astolfo
Rosa Luxemburg trovava il primo libro, “tanto apprezzato”, del “Capitale” “finemente lavorato, rococò, à la Hegel”. Marx avrebbe sottoscritto la critica. Non aveva orecchio e in traduzione viene meglio – con “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, la versione italiana invece di quella sorda originale, si sarebbe potuto dire che anche Marx cominciò con un endecasillabo, lo scattante pentametro giambico di Dante. Sarà stato un brillante filosofo a ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico. Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era un’assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza, criticano il capitalismo, il mercato dei soldi.
Rosa Luxemburg trovava il primo libro, “tanto apprezzato”, del “Capitale” “finemente lavorato, rococò, à la Hegel”. Marx avrebbe sottoscritto la critica. Non aveva orecchio e in traduzione viene meglio – con “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, la versione italiana invece di quella sorda originale, si sarebbe potuto dire che anche Marx cominciò con un endecasillabo, lo scattante pentametro giambico di Dante. Sarà stato un brillante filosofo a ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico. Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era un’assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza, criticano il capitalismo, il mercato dei soldi.
Contro lo Stato
Marx
riderebbe del Diamat, una cosetta scientista, positivista, e del sistema
moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico,
una forma come un’altra di dittatura. Curando nel 1970 la voce “Scienze
Politiche 1” dell’Enciclopedia Feltrinelli, intitolata «Stato e politica», Negri ne escluse lo Stato: c’è Stato
pianificato, sovietico, nazionale, di diritto, eccetera, ma non Stato. Non si
saprebbe ovviare. Sono tanti i motivi per cui lo Stato manca, il principale è,
Negri diceva, che è alienazione e distruzione: “Una realtà che l’uomo nuovo,
prodotto dallo sviluppo capitalistico, che sa natura e storia non come nesso
oscuro ma come sua propria realtà, costruita e sofferta nel lavoro, e nello
sfruttamento che l’organizzazione del lavoro determina, sente come un’impostura
da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa
dominio”. Toni Negri ha il merito di non dirci “figli di Marx e della Coca
Cola” – a tanti la Coca Cola non ci
piace. Ma pure Kipling ha un’ode
al lavoro, a quello che “ci annienta”, e alla fine si resta confusi: è dunque
meglio lavorare che non lavorare? Il lavoratore crea, lo Stato
distrugge, ma se ci siamo liberati non sappiamo che fare.
Marx non ne ha colpa, lui il suo lavoro
l’aveva completato, chiedendo di abbattere lo Stato. La verità sul fondatore
del comunismo è un’altra, che è inutile tacere. Che è stato il socialismo a
indurre e generalizzare l’idea del possesso. Flaubert l’ha visto nel ’48, la
rivoluzione della libertà, guardando le barricate da lontano, e l’ha
dettagliato vent’anni dopo nella sua “Educazione sentimentale” che invece è politica. A un
certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti e si
segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “la
Proprietà montò nei rispetti al livello della Religione e si confuse con dio.
Gli attacchi che le si portavano parvero sacrilegio, quasi antropofagia.”
Ode
al lavoro
Ma è vero pure il contrario: se la identità è definita
dal possesso, non si può più negare che
il socialismo è una forma completa di liberalismo, non limitato cioè alla
borghesia. Non solo come formula politica, poiché al socialismo è essenziale la
libertà, l’uguaglianza è la realizzazione della libertà. Ma proprio dal punto di vista
economico, dei mezzi di produzione, il capitalismo producendo più ricchezza per
il più gran numero, più opportunità quindi per il proletariato, e più tempo
libero per tutti. Anche per scrivere o ricamare, il lavoro intendendosi
occupazione onorata e dovere civico e non sfruttamento.
Per
questo anche Marx resta vivo. O redivivo, se è Cristo – se era ebreo si è
convertito. Per il dovere del paradiso in terra, per la giustizia. Fedele di
Hegel, fu per questo condotto a mali passi dalla Riforma. Se Dio fosse nel
processo di negazione e oltrepassamento, allora sarebbe un serial killer: una cosa è o non è. Lo vede ognuno che l’io
protestante, o idealismo, è l’umiliazione dell’individuo, per quella rivolta
contro l’oggetto che è invece il soggetto, una moltitudine di soggetti, mai
riducibili a oggetti, anche perché lavorano insieme alacri per approfondirsi e
moltiplicarsi, cosa di cui il Vaticano e la chiesa sempre sono stati al
corrente. Mancò dunque l’occasione di mettersi col papa e sciogliere per
sempre il nodo della socialità - individuo,
classe, Stato - ma può ancora recuperare.
Vittoriano, realista
Superato
Marx lo è certamente, in quanto fu vittoriano. Sottolineava le parole, e le
virgolettava, con la stessa enfasi della regina Vittoria. Mentre la nobile
moglie Jenny prendeva gli appunti e copiava per lui. Comprò il piano per le
figlie. S’innamorò di una ragazza Bismarck e altre principesse giovani. Sedeva
nella sala di lettura del British Museum accanto ai Sobieski Stuart, che vi
avevano un seggio di diritto, essendo stati dichiarati eredi della defunta
dinastia - a Londra si celebravano all’epoca le dinastie, ogni sorta di
dinastie. Fu membro
all’università del Borussia, che diventerà il circolo dell’elmo chiodato. Capiva
le ragioni dell’impero, e mai lavorò, facendosi mantenere dai compagni e da
Engels. Un vit-toriano simpatico: non frustava le donne che s’immaginava di
scopare.
Di Rosa vale
ricordare che Lenin l’apostrofò a cose fatte: “Accade
a volte alle aquile di scendere perfino più in basso delle galline, ma mai alle
galline di salire al livello delle aquile”. Era un complimento, ma dopo una
dura polemica. Ed era una condanna per gli altri, “tra i mucchi di sterco nel
cortile di dietro del movimento operaio, le galline tipo Paul Levi, Scheidemann
e Kautsky che scacazzano intorno alla grande comunista, ognuno fa quello che
può”. I compagni possono essere i peggiori nemici. In Germania la chiamavano
“Rosa la sanguinaria”, i compagni del Partito presto allineato, lei che viveva
come una cinciallegra.
Di
suo Marx era ed è realista, della borghesia sapendo che non può non
rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, e quindi i rapporti
di produzione. E ha risolto l’incoerenza del pensiero liberale: il progresso va
coordinato con l’esaltazione della storia di Hegel, il regno della libertà è
nella società senza odio, classi, sfruttamento. Il liberalismo legando ai lumi.
Superbo alfiere della ragione, tanto più in tempi di decadenza, benché non
abbia letto Tocqueville, e neppure tutto Hegel, là dove anticipano Heidegger,
“solo un Dio ci può salvare”. Se un rimprovero si può fargli è di non aver
letto Belle van Zuylen quando rimbecca Diderot, che la religione voleva ridotta
a sovrastruttura delle classi dominanti. Anche se le classi dominanti, si sa,
più intelligenti in questo di Marx, di solito non trascurano la religione, che
è l’esercizio più sublime dell’immaginazione. “Un Dio s’incontra nel reale”,
dice bene Lacan.
(continua)
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