astolfo
I cattivi di Dostoevskij non sono “cattivi”. Il rischio è sempre quello, in questo e in ogni cosa, di finire grandi masturbatori, alla D.H.Lawrence, non altrettanto innocui. Marx, il Prometeo intellettuale, è finito moderno uomo di pensiero, specialmente orfano di Dio e quindi piegato sull’angoscia, che si rappresenta le proprie paure senza sfidarle e forse ne gode – è uno che immagina di godere nella disperazione. Oppure è figlio d’una classe perdente, la borghesia, che non è più collettiva e produttiva, come lo era prima di sedersi in salotto, orgogliosa della libertà sociale, e non è tory come ambisce, non realizza l’ordine dello spirito e la bellezza, non può, non sa. E finisce per amare la sconfitta, compiacendosi del ruolo di Tiresia inetto, cioè della sua inutilità – il male non ha bisogno d’indovini. Questo vale anche per i programmatori, il loro riformismo è sterile: le strade e i ponti nascono perché i lavoratori li fanno, quelli che sanno farli, uno dopo l’altro, per una loro intima necessità, intima alla strada e al ponte, senza chiedersi il piano generale dei ponti e la loro finalità ultima.
I cattivi di Dostoevskij non sono “cattivi”. Il rischio è sempre quello, in questo e in ogni cosa, di finire grandi masturbatori, alla D.H.Lawrence, non altrettanto innocui. Marx, il Prometeo intellettuale, è finito moderno uomo di pensiero, specialmente orfano di Dio e quindi piegato sull’angoscia, che si rappresenta le proprie paure senza sfidarle e forse ne gode – è uno che immagina di godere nella disperazione. Oppure è figlio d’una classe perdente, la borghesia, che non è più collettiva e produttiva, come lo era prima di sedersi in salotto, orgogliosa della libertà sociale, e non è tory come ambisce, non realizza l’ordine dello spirito e la bellezza, non può, non sa. E finisce per amare la sconfitta, compiacendosi del ruolo di Tiresia inetto, cioè della sua inutilità – il male non ha bisogno d’indovini. Questo vale anche per i programmatori, il loro riformismo è sterile: le strade e i ponti nascono perché i lavoratori li fanno, quelli che sanno farli, uno dopo l’altro, per una loro intima necessità, intima alla strada e al ponte, senza chiedersi il piano generale dei ponti e la loro finalità ultima.
Contro la filosofia
Marx
è stato grande in questo, che ne rideva. Ma, Croce ha ragione, “Marx non tanto
capovolge la filosofia hegeliana quanto la filosofia in genere, ogni sorta di
filosofia, e il filosofare soppianta con l’attività pratica”. Che, se si sta in
pantofole, non è attiva né pratica. Patrizi e plebei si diceva a Roma dei
primogeniti e i cadetti della stessa famiglia, i privilegiati e i non, ma tutti
erano aristocratici, ne avevano lo spirito. Marx ne è parte, patrizio o plebeo
che si voglia, non è invidioso, non cattivo: non è schiavo ma libero. La sua
democrazia fa grande, universale, ciò che a Roma era circoscritto. Ma il resto della
storia non è onorevole.
Dopo
Marx più nulla, una voragine si è aperta che non si colma. “E sempre ancora
v’inonda di missive\ nelle quali, sottolineato, scrive:\ “Signor Kästner, dova
sta der Positive?” Erich Kästner non
se lo chiede più, essendo morto, e comunque non ci sono novità a un secolo
data, è sempre e solo Marx. Anche lo Stato delle multinazionali, dipoi
globalizzazione, sanno di rieccolo: il previsto mercato mondiale,
l’imperialismo puro. A opera del più forte di tutti i forti, gli Usa. In condominio
con l’ultimo paese marxista-leninista
del mondo, e di gran lunga il più grande, la Cina, ma con diritto di
signoraggio. Nel nome del mercato, di cui Marx fu secondo scopritore – dopo
Francis Hutcheson, che “la maggiore felicità per il maggior numero” teorizzò, e
i suoi discepoli Hume e Smith. Benché con alcuni paletti, pochi, nei punti
sensibili. L’imperialismo di mercato è molto democratico, la Coca Cola si può
bere del Congo. È pure bello, Hutcheson ha imposto l’estetica come disciplina,
vanta anche questa primizia.
Fra
le cose che Lucio Colletti aveva capito al momento dell’abiura, uscendo
dall’ermeneutica dei funzionari del Partito, è che il “Capitale” ha un
sottotitolo, “Critica dell’economia politica”. Lo ha sempre avuto, ma Lenin
aveva detto che bisogna leggere “Critica dell’economia politica borghese”. No,
Marx critica l’economia politica come scienza in sé borghese, cioè
contabilistica. Molto rivoluzionario, ma è von Hayek, non palloso.
Il
feticismo delle merci, l’alienazione nella vita e nel lavoro, questo lo
eccitava – oggi lo avrebbe fatto impazzire: la condizione umana. È tutta qui la
teoria del valore. Il plusvalore è la “realtà capovolta” rispetto agli elementi
originari della produzione, la terra, il capitale, il lavoro, ma è realtà non
disprezzabile, se non invenzione miracolosa. Quanto al popolo, non a Marx, è
all’intellettuale che piace, creatura del romanticismo fumoso, che pensa di
farsene guida – la volontà del popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il
marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e
rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Gentile o
Pareto, l’Italia è “Machiavelli dopo Marx”, direbbe Noventa, liberale e
socialista pentito.
“L’appello ai principi immateriali è
il rifugio della filosofia pigra”, questo lo dice Kant visionario. Che però
ammonisce: “Il materialismo, se ben si considera, uccide tutto”. Ma i comunisti
sono con Marx finora le sole vittime del Diamat, al cui gioco vince il
capitale, quintessenza della materia. Lo spiega Arthur Rosenberg, l’apostata:
“La concezione materialistica della storia è l’applicazione della critica
dialettica a tutti i fenomeni del vivere umano. Tutti i valori, in ogni campo,
sono pesati e riscontrati troppo lievi. Ma il fatto di confutarli nei libri non
basta a bandire dal mondo lo Stato e la legge borghese del salario. Gli oggetti
dell’analisi non diventano chimere per il fatto di essere criticati: non viene
abolita l’aria perché il chimico scopre gli elementi da cuii essa è costituita.
La polizia dello Stato borghese e la cassaforte del capitalista sono amare
realtà”.
Marx
la storia passatista di Hegel ha rivoltato verso l’avvenire. Ma quale? Già a
fine secolo il Margarethenhöhe, il quartiere operaio dei Krupp a Essen, che pure
sono antipatici, era l’invidia dei ricchi di Roma. Nobilitare il popolo è
quello che voleva Luigi XVI. Ma, si sa, direbbe Balzac, “tutti i montoni
vorrebbero essere leoni”. E perché il notaio Balzac sarebbe reazionario, lui
che, per esempio, sapeva che la ricchezza moderna si basa sulla miseria della
campagna, della periferia del mondo – “il prezzo delle derrate di prima
necessità fissa il prezzo del salario, e il prezzo del salario regge quello dei
prodotti”: la ricchezza “riposa da cima a fondo sull’eccessiva sobrietà, sulla
miseria, diciamo la parola, dei contadini”?
Crocefisso dal Diamat
Alcuni
pensano, dice Lévi-Strauss, che il marxismo è una furbata in fo-ma di ragione
per occidentalizzare il mondo. Non è vero. Ma è vero. “Marxismo o rivoluzione?”
titolava Massimo Scaligero nel 1968 – un esoterista, ma non nelle nuvole. Lo
diceva non per ridere, non per la “colonizzazione dialettica” che si faceva in
Cina, né per il “conservatorismo di sinistra” di Togliatti. Rivoluzione
è il cristianesimo, si sa, il messianesimo compiuto – gli ebrei se ne
distinguono perché non credono
in realtà al messia, non ne vorrebbero uno. Un messianesimo che parte da
Treviri, la Terza Roma, invece che da Gerusalemme. La
guerra che Cristo ha portato è il dovere del paradiso in terra. Più di Cristo
Marx è vantone, vuole guerre, come se le avesse vinte in partenza, propone
miracoli, e dà la certezza della salvezza. Anche se è più tollerante, un Cristo
laico. Ma il Diamat lo ha crocefisso, e senza resurrezione, lo tiene lì in croce.
Il
problema di Marx è, si sa, il marxismo-leninismo, di cui non ha colpa,
l’ideologia. Contro la miseria di chi la vuole sovrastruttura – ma struttura e
sovrastruttura sa di mobili e soprammobili, non ne sarà un calco? L’ideologia
ha la forza dell’immaginario, Althusser ha ben vissuto anche se solo per dirlo.
Dei facitori di parole, i demagoghi, i buoni scrittori anche, e Marx lo è in
grado eccellente. La buona scrittura sarà onesta ma per interna coerenza, sul
metro della sfuggente verità un po’ simula sempre. Marx, che fu capopartito, lo
sapeva, una parola ben detta vale più d’ogni verità, e lo sapevano le sue
vittime, che le storie del socialismo faticano a redimere: c’è una verità della
fede indigesta a ogni logica.
Il Diamat confonde la realtà e la dialettica.
Mentre una distinzione c’è. Marx distingueva proprio questo: le contraddizioni
capitalistiche sono dialettiche ma non reali, meno che mai inevitabili, che
stronzata. Non è più materia di contesa, lo ha riconosciuto da ultimo pure
Colletti – “una filosofia che pretende uno status
superiore a quello della scienza è una fi-losofia edificante, cioè una forma
scarsamente mascherata di religione”. Mentre emerge il sospetto che al mercato
si trovino più grano, più viaggi, più atomiche, più medicine, più minigonne, e
più cura. “Meglio liberi che ricchi”, dice von Hayek, liberale Nobel tardivo,
ipocrita forse precoce. Ma c’è di peggio: la libertà produce più ricchezza – e
l’ingiustizia è più o meno uguale. Viene il sospetto che si è ricchi perché si
è liberi. E vale perfino il contrario: più si produce ricchezza e più si è
liberi, che si è liberi in quanto si è ricchi. La ricchezza certo non è tutto.
Ma è niente?
(continua)
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