astolfo
“E adesso che facciamo?” si chiedono gli avvoltoi nel Libro della giungla. Rispondendosi: “Secondo te cosa si può fare?” Sulla tomba di Hegel a Berlino, patria del Diamat, prospera la gramigna. E Marx, Einaudi è più rivoluzionario. Con la sua legge semplice che liberalizzasse in tutto o in parte l’asse ereditario alla morte del padrone: che moltiplicatore di ricchezza e democrazia! Einaudi non sapeva – lo sapeva ma non voleva saperlo – che una legge è una società e un’ideologia, che la liberalizzazione dell’eredità implica l’abolizione del diritto di proprietà, se non come diritto d’acquisizione. Non era un politico e non si voleva un rivoluzionario. Ma la sua modesta proposta è più radicale – rivoluzionaria – della lotta di classe, che è un residuato borghese, dell’89.
“E adesso che facciamo?” si chiedono gli avvoltoi nel Libro della giungla. Rispondendosi: “Secondo te cosa si può fare?” Sulla tomba di Hegel a Berlino, patria del Diamat, prospera la gramigna. E Marx, Einaudi è più rivoluzionario. Con la sua legge semplice che liberalizzasse in tutto o in parte l’asse ereditario alla morte del padrone: che moltiplicatore di ricchezza e democrazia! Einaudi non sapeva – lo sapeva ma non voleva saperlo – che una legge è una società e un’ideologia, che la liberalizzazione dell’eredità implica l’abolizione del diritto di proprietà, se non come diritto d’acquisizione. Non era un politico e non si voleva un rivoluzionario. Ma la sua modesta proposta è più radicale – rivoluzionaria – della lotta di classe, che è un residuato borghese, dell’89.
Marx sarà stato l’ultimo dono dell’Europa al
mondo. Heidegger, Freud, Nietzsche stesso sono dei maghi – Hitler lo era. Marx
invece no, e questo è rassicurante. Confinato al sovietismo, la vecchia
agiografia, lui critico impietoso, se n’è caricato i riti, inclusi i miracoli. Da
ragazzo c’era portato, che diciassettenne scrisse di Augusto, in latino: “Un capo
assoluto e non la libera repubblica fu capace di dare al popolo la libertà”. La
chiesa sovietica non poté che farne il profeta di Lenin, ogni messia ha un
precursore. Ma è di Lenin il partito chiesa, che non lascia scampo. Fino a
Krusciov, che fu detto liberalizzatore ma introdusse la preghiera laica al matrimonio,
da recitarsi dall’officiante, come in chiesa: “Alziamo i calici… \ Vuotiamo i
calici nuziali, gloria a te, caro Partito, gloria!\ Per u futuro luminoso, per
quest’ora di gioia,\ gloria a te, caro Partito, gloria!”. L’abbandono
dell’analisi per l’ideologia, della critica dell’economia politica per la
mistica della rivoluzione è di Lunačarskij e Bogdanov, comprimari di Lenin. La
religione è leninista. È Lenin che ha dato alla politica il primato
sull’economia e la struttura, Lenin è il primo antimarxista. Lenin il sarmata, che il
comunismo ha trascinato fuori dalla tradizione occidentale del dubbio. L’azione
politica di Marx ha tramutato nella fabbricazione della storia. Il marxismo
come fabbrica, Marx ancora ne riderà.
Cattivo comunista
Oppure no, il primo antimarxista è Marx.
Che dà
una garanzia che è poco più di una metafora: ogni società, dice con Hegel,
contiene in germe le epoche successive come ogni organismo vivente porta i semi
dei suoi discendenti. Ma questa gracilità Marx condivide con tutti i filosofi.
Fu giornalista, dopo rapidi studi di dottrina dello Stato, filosofia e storia,
senza dottorato, anche se pretenderà di rovesciare Hegel. Engels lo paragona a
Darwin. Ma è a Spencer che somiglia: la lotta di classe come il darwinismo
sociale, la sopravvivenza del più forte. Avendo sviluppato la teoria classica
del valore-lavoro. Ma l’economia o l’interesse non spiega l’uomo, nemmeno
l’uomo corporale, senz’anima, e neppure l’odio, non spiega la guerra, né
l’ilare tragedia dell’amore, il sacrificio di sé, la procreazione, incluso dell’impresa
economica, il piacere.
Marx
che si vuole critico è astratto, irrealistico. Entusiasma ma è sterile. Solo
produce odi improduttivi, della perfida Albione, degli yankee, dei padroni, di chi possiede di più. Se c’è qualcuno che
sa, con cognizione di causa, che il mercato è incontrollabile è lui - con più
cognizione di causa di Smith. La filosofia della prassi è certo novità
eccezionale, ma il suo inveramento avviene in Dostoevskij, o in Gide volendo
essere beneducati, e Heidegger: nella rivoluzione del buco, poiché la stupidità
esiste. Non fu meglio come politico, collerico, fazioso, dispettoso. È uno
scrittore, precisamente uno storico creativo. Voleva scrivere, sapeva scrivere,
e lo sapeva: “Il vantaggio dei miei scritti”, scrive in vecchiaia a Engels,
“quali che ne siano i limiti, è che sono un insieme artistico”. Non un
agitatore, era un pantofolaio. Ma era cattivo politico perché era cattivo
comunista.
Marx è all’origine e al fondo un liberale.
Non anarchico, qual è il liberale coerente: no, costituzionale. Un figlio del
’48, un altro. Della dissociazione tra le istituzioni – lo Stato del vecchio
tedesco – e la società. Della possibilità e infine necessità della pratica
rivoluzionaria – la faglia trova nell’antagonismo tra proprietà e lavoro. Da qui il catechismo volgare.
Per abbattere lo Stato e i padroni ci vuole la rivoluzione. E la rivoluzione è operaia:
il lavoro libera dall’ideologia, di servitù e violenza. Occorre dunque essere
operai. Mentre da tempo la classe operaia si libera da se stessa, non vuole
essere più operaia. La rivoluzione è allora antimarxista.
O non
sarà Marx un catechista, se kat-echon
è ciò che arresta? Un
teologo che si rifiuta? L’asceta che ribalta l’ascetismo, il rifiuto del mondo,
in odio di classe, cioè nella conquista del mondo. “Una meravigliosa illusione fa
sì che l’alto volo della speranza si leghi sempre all’idea del salire, senza
riflettere che, per quanto si salga, si deve pur ricadere, per porre piede
forse in un altro mondo”, dice ancora Kant, che era alto un metro e mezzo. Sì, Marx è Sorel, “l’economia marxiana è manchesteriana”, con
proprietà, mercato e profitti. Ma ridicolo non è, Marx non è fascista. Solo che,
come Machiavelli, mette piede ricadendo sul mondo di prima – gli uomini più interessati
che cattivi sono nel “Principe”.
Fazioso ingenuo
Non si può fargli colpa di Stalin, che non
lo realizzò ma l’affossò: la rivoluzione che doveva eliminare lo Stato ribaltò
nello Stato totalitario, per primi liquidando i comunisti. La potenza del
Diamat è nella sua debolezza in quanto comunista, razionalista, ottimista:
critica di quale realtà? nel nome di quale verità? Marx è tanto fazioso quanto
ingenuo e per questo simpatico: è impossibile che abbia torto. Anche se il
comunismo ovviamente è anch’esso un’ideologia e non la fine delle ideologie.
Per non dire dell’origine del capitalismo, che c’è sempre stato, anche in Asia,
in Perù e perfino in Africa: sempre lo scambio lascia qualcosa da parte,
l’hanno sempre saputo gli antropologi, che vanamente utopizzano il potlach, il dono senza residui. La
passione ha fatto velo a Marx su una verità evidente: il suo capitalismo, la
superiorità dell’Europa dell’Ottocento, è proprio il salario. Il lavoro
salariato per tutti, indotto dalla meccanica – che Ford coerente porterà
all’estremo di non rifiutare il lavoro a nessuno. Il salario che si riproduce
coi consumi più che coi profitti.
Il sospetto del resto deve andare contro “ciò che
ogni periodo dice di sé e immagina di essere”, partendo da Hegel e Descartes: “De omnibus dubitandum est” – tutte
persone che non dubitano, Descartes, Hegel e lo stesso Marx, mentre, spiega
Kierkegaard, il dubbio stesso è soggetto a dubbio. Per la verità delle cose
invece che per la verità del discorso, che è sempre zoppa. La verità del
discorso darà più piacere – le zoppe provano e danno più piacere, secondo
Montaigne – ma è inutile: non c’è dubbio che “la violenza è la levatrice di
ogni vecchia società”, e la violenza in effetti non è ideologica, è di tutte le
ideologie. Mentre la rivoluzione di Wagner sembrò eccessiva perfino a Bakunin, “dea
sublime” del walhalla, che “scende fremente sulle ali delle tempeste”, tra
terremoti, uragani, spade fiammeggianti, fiaccole, raggi di sole, fiori
profumati, cori di giubilo. E perché non ascenderebbe, invece di scendere?
Wagner e Marx furono compagni di rivoluzione
nel ‘48. C’erano i ricchi e i poveri, i borghesi e gli operai, quelli che
sempre si arricchiscono e quelli che impoveriscono, con pochi trapassi verso
l’alto, e solo per caso. Poi, col sindacato e con Ford, le società sono
diventate di classi medie, di cui gli operai fanno parte, buona parte di essi.
Il dimenticato dottor Carli, che ha fatto la politica monetaria in Italia per
mezzo secolo, stimava già cinquant’anni fa che un terzo dei buoni del Tesoro erano
sottoscritti da famiglie artigiane e operaie, talvolta con la figlia impiegata. Mentre il comunismo,
Foucault lo certifica, è proprietà esclusiva dei partiti comunisti, fino al
1989 in adesione totale all’Urss, senza leggere Marx. E incorreggibile, dove
residua.
A Parigi
dopo il ’68 un filosofo chiese di “dimenticare Foucault”, un filosofo del
Partito. Tra i professori non era impossibile, benché in Francia il Partito
fosse già screditato: alla fondazione dell’università di Vincennes nel 1970 solo
due professori su venti non facevano un corso su Marx, quello del Diamat di
Mosca, e uno dei due era Foucault. Il risultato è che Marx resta ignoto, mentre
con Foucault si parla.
L’oppio della rivoluzione
Marx
“può non essere simpatico”: non lavorava, sfruttava la donne di casa e gli
amici, era un elitista, avanguardia di avanguardie, era settario e favoriva i
settarismi, Lenin non è che non è figlio di nessuno, ha distrutto tanti buoni
socialismi, liquidandoli come ubbie o utopie, odiava i contadini e la campagna,
da cittadino viziato, odiava i russi, da buon tedesco. E i cinesi, che voleva ottusi,
ereditariamente. “Nella stessa misura in cui l’oppio ha conquistato il dominio
sui cinesi”, scrisse sulla “Herald Tribune”,
“l’imperatore e la sua corte di mandarini spietati sono stati spogliati della
sovranità” dai mestatori inglesi. “Si direbbe che la storia dovesse intossicare
questo popolo”, scrisse ancora, “ prima di farlo uscire dal suo stato di
ottusità ereditaria”. L’oppio seme della rivoluzione, levatrice la
mafia inglese, è un’idea.
La borghesia ne ha tratto miglior lezione. Marx ha insegnato ai ricchi i cicli economici, che le crisi non
ci possono non essere e conviene fronteggiarle. In quanto critico del capitale
è ingenuo: prende per buona la riproduzione allargata, cioè la stessa
produzione di merci a mezzo di merci che vitupera. Non è radicale, non è un
filosofo dell’economia. Era accidioso. Ma ha finito per costruire un’ideologia
portentosa del capitalismo, che prospera contro ogni logica. Ha scritto nel “Manifesto”
che “la borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente
rivoluzionaria”, mentre Burke, uno che se ne intende, aveva già detto della
proprietà che è “pigra, inerte, timida, la zavorra della nave della comunità”.
Marx ha spinto i borghesi a fare i buoni borghesi, spiegando che il capitalismo
è un sistema, non l’avrebbero mai capito.
Oppure la borghesia e non lo ha ancora
capito. È di Karl Marx non di Karl Polanyi, quindi già di due secoli fa, la
dimostrazione di come le “forze di mercato” senza limiti, di cui esse si fanno stolidamente bandiera, distruggono la
democrazia e anche l’economia. Che il mercato non sia la forza della democrazia, e anzi la insidii, è verità di destra oppure di sinistra? Di destra dopo che Marx ne ha dimostrato il fondamento. La pauperizzazione, certo, a questo punto è
forzata – la proletarizzazione: non si può dire Marx profeta sterile.
(fine)
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