lunedì 11 dicembre 2017

Il fantasma di Carlo Marx

astolfo

Ha dell’incredibile, per essere passato inosservato per i centocinquant’anni del “Capitale”, questo 2017, mentre non si annuncia niente per il 2018, per i duecento anni della nascita, a maggio. È un segnale della senescenza dell’Europa, la perdita della memoria. Di un personaggio peraltro determinante per la sua storia, la storia dell’Europa, per altrettanto, almeno un secolo e mezzo. L’ultima, probabilmente, proiezione dell’Europa sul resto del mondo, dalla Manciuria alla Terra del fuoco. E a lungo ferace anche negli Usa, che se ne penserebbero vaccinati. Come ragione critica, l’eufemismo per marxismo di Horckheimer, Adorno, Marcuse e Brecht, per non turbare, quinte colonne tedesche, gli ospitali americani alla vigilia della guerra.
Bravo borghese
Marx è anzitutto una persona, la prima cosa che di lui si è dimenticata, quando era in auge. Il lavoro aliena, assicura, lui che non ha mai lavorato, Uno che conduceva una vita borghese, col piano per le figlie, e l’aiuto domestico, eventualmente da ingroppare, sempre senza lavorare. Marx era per formazione e inclinazione un borghese, andava pure al casino, una volta con Engels presero lo scolo dalla stessa puttana.
Si deve anche – ancora - fare giustizia di tanto Diamat volgare, che si dice marxismo-leninismo, ma né Marx né Lenin erano stupidi, e Marx non si faceva illusioni. La Germania, secondo lui, nel 1870 si difendeva, incoronandosi a Versailles. Nella prefazione alla prima edizione del “Capitale” elogia il liberalismo inglese. Marx di scientifico ha l’utopia, la politica la rifiuta, e con essa, anche se non lo sa, l’economia. Mentre lo Stato si caricava a Occidente di cassa malattie, pensioni e mutui. E i padroni capitalizzavano cinque secoli di ottimo pensiero politico, Machiavelli, Hobbes e Grozio, Locke, Hume e Kant, Burke, Constant e Tocqueville, e si appropriavano Weber, Pareto, Kelsen e Schumpeter, oltre allo stesso Marx.
Non bisogna però equivocare, non c’è infamia nel volere il pianoforte per le figlie. Il rifiuto del ruolo, per l’uguaglianza del merito e una vita da vivere a ogni istante, non è la realtà o la contemporaneità, e non è Europa, semmai è America. In Europa tutti vorrebbero una moglie nobile, la ca-sa in Toscana o in Provenza, con contadino, da guardare da lontano come il vecchio feudatario, e i ricevimenti del Gattopardo coi gelati squagliati, il rifiuto della buona borghesia è assillo borghese, un’ideologia.
Marx voleva un’altra cosa, e lo disse subito, stabilendo nella Miseria della filosofia che cosa non andava. Non era contro i borghesi per i proletari. Cioè sì, ma contro la stupidità di chi vuole produrre la ricchezza a mezzo della miseria, dei proletari e sua. “Negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza si produce altresì la miseria”, a opera degli stessi: “Questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri che integrano questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato sempre crescente”. Grandi palle alzava Marx ai borghesi intelligenti, anche solo poco. A Ford, per dire, quand’era sobrio dall’antisemitismo. E non si può fargliene una colpa. Il gregge è il corpo del pastore, ne è l’estensione, il formicaio lo è delle formiche, l’alveare delle api: ne estende il corpo e la mente, per i pascoli e oltre, nella lunga giornata senza tempo, nella transumanza. La fabbrica lo è dell’operaio, l’azienda dell’impiegato, il lavoro del lavoratore. È una condizione antropologica, non una classe. Marx non lo sapeva perché non lavorava.
Contro il proletariato
Il problema con Marx è che voleva eliminare il proletariato. Mentre nel suo nome si è lottato per farlo trionfare. Il proletariato, i servi cioè retribuiti. È per forza che è morto da tempo. “Appena Marx ebbe chiara coscienza del proprio sistema”, dice Rosenberg l’antichista, comunista senza partito, “dovette cercare gli operai”. Al British Museum non ce n’erano, e Marx non ha mai conosciuto un solo operaio. Gli stessi comunisti egli disprezzava eccetto Engels, di cui è nota l’opinione sui partiti: “Che importa a noi, che sulla popolarità ci sputiamo, e che perdiamo la testa appena cominciamo a diventare popolari, di un partito, cioè di un branco d’asini che giurano nel nostro nome perché ci credono loro pari?” Incoercibili politicanti in realtà entrambi. Specie Marx, che per primo non credeva alle leggi dell’economia, che sapeva falsate da autodidatta, e della storia. E la vita spese a costituire la sua fazione, contro ogni altro socialista e comunista prima che contro la polizia segreta prussiana.
Sapeva riconoscere un nemico, questo sì. Per questo eresse un monumento al capitale, con la proposta di arrestare la storia e la filosofia, l’impercettibile ma costante mutamento attraverso cui l’uomo esce dalla sua pelle, con gli amori, il lavoro, la generazione, la convivialità, nell’arte, canti, balli, racconti, silenzi, e negli elementi, la terra, il legno, la pietra, il ferro.
Si fa presto a dire Marx, ma che dice lui, e che rivoluzione ha organizzato, che partito, che sindacato? Bisognerà aspettare Lenin per avere una rivoluzione marxista, di borghesi cioè con la classe operaia. I libri e le sue innumerevoli lettere sono frammenti. Il cui filo non può essere la struttura, cioè il potere secondo il Diamat: il lavoro produttivo è sovrastrutturale, un qualsiasi esperto di mercato lo sa. Altrimenti è un comunismo da schiavi: non può “realizzare l’uomo” se elimina ogni spazio comune. Ed è la verità della sua prima rivoluzione, in Russia, paese di servi, e non in Germania, dove c’era la più vasta e organizzata classe operaia e il contesto era maturo, per la crisi dell’economia e dell’imperialismo.
I lavoratori tedeschi vollero anzi ridare ai borghesi il potere che la guerra perduta aveva loro sottratto. L’astronomo olandese Pannekoek - che ne sapeva più di Lenin, disse lo stesso Lenin - scoprì subito pure perché: in una società integrata, che viene da lontano, egemonie e sudditanze si legano per molti fili, culturali, storici, tribali. Non maturano solo i processi produttivi, di più ma-turano e anzi induriscono le ideologie, e si dovrebbe dire le psicologie.
Ironico, liberale
Era amante del paradosso, benché a fini di conoscenza. La banca è l’arma dei poveri, sostenne con Engels nel 1851, quando Proudhon, l’amico dei socialisti italiani, voleva abolire la banca. È come se desse tutto ai borghesi ricchi, obiettava Marx. Vide anche tempestivo i misfatti della rivoluzione industriale, Smith e Ricardo, che la teorizzavano, non seppero di esserne i contemporanei.
Marx era superbo, in questo è reo. Ironico: per un Witz avrebbe dato il “Capitale”. In tutti i rapporti, anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico: io e gli altri. È la forma più esasperata di egotismo, limitare alla misantropia, il fastidio dell’umana imperfezione. Marx era uno che capiva una diecina di lingue, corrispondeva con migliaia di persone, leggeva i giornali di tutto il mondo. E non ha mai fatto la fila per il burro, benché disoccupato.
Marx non è un semplice che lega la rivoluzione alla crisi – né un Andreotti che governa “a mezzo della crisi”. Oppure è liberale oltre che grande borghese, inconsapevole: snobbò Eugène Sue, “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”, candidato dai socialisti “per far piacere alle grisettes”, perché era liberale. Chiudendo il “Manifesto”, alla vigilia del ‘48, offre un’alleanza ai borghesi, l’alleanza dei produttori, ro-ba da Saint-Simon. La “Neue Rheinische Zeitung”, il giornale che fondò e diresse nel ’48, non spiacque ai borghesi renani, nell’intento che ritenevano condiviso di sottrarsi al Congresso di Vienna di Metternich, che li aveva annessi alla Prussia.
L’ironia è il suo lato simpatico, oltre che una grande dote conoscitiva, socratica. Ma è il virus che ne mina la dottrina. Il cristiano si riscatta al confessionale, per quanto ipocrita possa la confessione cristiana essere, il comunista non può pentirsi mai. Pena l’ipocrisia, che è malvagia. Inoltre, ironizzare porta all’insensibilità, non a più conoscenza. Attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie - soffriva Marx di fegato? Vladimir Nabokov lo vede in aspetto di “traballante e bisbetico borghese in calzoni a quadretti di epoca vittoriana”, il cui “cupo Capitale è “figlio dell’insonnia e dell’emicrania” – ma Nabokov ne condivide il sarcasmo, con punte snob perfino più acute, anche se non sembra possibile.
Come l’altro monopolista Freud, che molta buona psicologia ha oscurato, Marx ha per questo vezzo cassato molto socialismo, alle sue radici: la compassione. Su Sue bisogna intendersi, Marx è ingeneroso, come a volte lo è il destino. Uno che aveva avuto padrini di battesimo Giuseppina di Beauharnais e l’Aiglon, il principe Eugenio, che passava le serate al Jockey Club, e nel 1850 si fece candidare per battere la legge Falloux, che aboliva la scuola pubblica, e in qualche modo ci riuscì, Parigi lo elesse – l’anno dopo Luigi Napoleone Bonaparte lo esiliò, e in nessun posto poté andare per l’opposizione dei preti, solo in Savoia, sotto la protezione del governo liberale di Massimo D’Azeglio, dove presto morì.
Contro il lavoro
Non solo in Ford alla fine, e in Owen all’inizio, ma nella Cadbury, alla Rowntree e in ogni altra azienda quacchera, in molte società cattoliche e in quelle socialiste del mutuo soccorso l’Ottocento ricorreva al lavoro per migliorare l’igiene e l’istruzione, o il rispetto di sé. Finché il lavoro non fu disseccato nel plusvalore. Le critiche presto erano emerse con Eduard Bernstein, e poi con Rosa Luxemburg - la nuova sinistra si trasforma in vecchia sinistra ai quarant’anni. Semplici, Marx le avrebbe sottoscritte: il moderno proletario è sempre povero ma non pauperizzato, la crescita della ricchezza non viene con la diminuzione del numero dei capitalisti ma con la loro moltiplicazione – si potrebbe fare un partito di massa dei ricchi, non fossero tanto ricchi da farsi passare per poveri. E lo slogan “i proletari non hanno padri” non è vero, purtroppo. Ma questo era contro l’interesse del Partito a farsi Stato. Senza contare che lo stesso successo delle sue idee ne inficia il presupposto, l’economicismo.
Marx fu marxianamente figlio del tempo, gli anni fra il 1851 e il 1862, quando rintanato nella biblioteca al British Museum ponzò i quattrocento articoli per la “New York Tribune” e la “New American Cyclopedia” e la critica dell’economia, mentre i tribunali disgregavano il comunismo e la corsa alla ricchezza subentrava con la pace alla scoperta dell’oro in California. Più forte del 1789 e del 1848, più esperto anche dei diritti di libertà e miglior filosofo. Benché pure il contrario sia vero: Marx l’Europa potrebbe aver corroso nell’intimo, Stalin non esce dal nulla.
(continua)

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