Una breve sintesi, in chiave celebrativa,
ma riesce a creare in mezzora tutti i motivi di fascino, ancorché misterioso,
che accompagna l’opera. Dismessa all’esordio come operetta, un rifiuto che immalinconì
l’autore e lo portò presto a morte, tre mesi dopo l’insuccesso, a 37 anni, e non
più ripresa per otto anni, fino al 1883, quan do riapaprve in versione censurata
e senza carattere. Salvo ascendere poi, da sola e rapidamente, a Fine Secolo
era fatta, la scala del Parnaso. Fino a conquistarsi palati celebri, da quello
famoso di Nietzsche, che via “Carmen” elaborava a sua vendetta contro Wagner, allo
schizzinosissimo Savinio. Che la dichiara semplicemente l’opera delle opere, “così
vicina a noi e assieme tanto lontana”, “sincera e schietta” come “obliqua e
densa di fato” (“nemmeno i Greci io credo seppero esprimere con altrettanta
chiarezza e precisione l’accento dela Moira, come Bizet” nella “Carmen”). Joseph
Conrad vi trovava uno “specchio magico”, che, sapendolo interrogare, rivela
verità sottilissime, tali da sfuggire anche a specchi ben politi, di luce
perfetta – una stagione andò ad ascoltarla per quattrodici sere di seguito.
Pappano ha saputo ricostituire in breve i
motivi di suggestione dell’opera. Con un’orchestra rinforzata, che suonava come
per la prima volta, e il sostegno, in assenza delle voci soliste, del corso di
Santa Cecilia, come semrpe super registrato, nonché del coro delle voci
bianche, altrettanto determinato e “al punto”. Un’esecuzione suggestiva anche alla
vista, come se la grande scena della sala Santa Cecilia non riuscisse a
contenere la vitalità che si sprigiona dall’opera.
George Bizet, Carmen, dir. Antonio Pappano, Orchestra di Santa Cecilia, Auditorium
Parco della Musica
Nessun commento:
Posta un commento