Cesare
Borgia – È creazione
letteraria – un racconto storico, poco fedele. Immortalato nelle lettere di Machiavelli ai reggitori
di Firenze e nel “Principe”, ma è durato appena quattro anni, con poco di suo,
e più in male che in bene. Da quando si è fatto vassallo del re di Francia
Luigi XII, che lo nobilitò per avere in cambio l’annullamento del matrimonio da
parte del papa Alessandro VII, padre di Cesare. Alla morte del padre, il 18
agosto 1503, il successore Giulio II lo farà imprigionate, senza problemi.
Evaso, sarà “condottiere” di suo cognato il re di Navarra ma presto morirà,
l’11 marzo 1505, miserabilmente in un’imboscata a Vana, in Spagna, dei nemici
del re francese pretendente del trono di Spagna..
“È un problema irrisolto sapere se la memoria
viva dei principi del Rinascimento è dovuta al loro proprio genio o a quello
degli artisti che hanno trasmesso l’essenza del loro essere alla posterità”.
Ernst Kantorowicz poneva il problema nel 1939, ma già allora dirlo risolto, per
quanto attiene a Ces are Borgia. Che non ha fatto nulla di memorabile, se non
intrattenersi distesamente, la notte, in lunghi colloqui in solitario con
Machiavelli, a Urbino e a Imola. Colloqui che sono anche la chiave probabile
del fascino che esercitò sul suo “creatore” Machiavelli, altrimenti
inspiegabile: Cesare Borgia fu l’unico uomo d’azione con cui il letterato
fiorentino poté trattare fatti d’arme e di politica, di genio politico. Ebbe
confidate numerose ambascerie importanti, ma trattava i problemi con i cortigiani.
Il Valentino fu l’unico che, forse per sentirlo quasi coetaneo, s’intrattenesse
con lui distesamente. E per argomentare delle sorti della storia, non per decidere
in merito alle ambascerie.
Duca Valentono, Duc de
Valentinois, della regione omonima, è titolo concesso l’1 dicembre 1498 a
Cesare Borgia, che dall’età di sette anni accumulava titoli, per essere figlio
del papa Borgia regnante, Alessandro VII (la nomina precedente era di cardinale
di Valencia, la successiva, un anno dopo, per il giubileo del 1500, sarà di Capitano
Generale della Chiesa), dal re di Francia Luigi XII. Che voleva l’annullamento
papale del matrimonio con la biscugina Maria, la figlia di Luigi XII, per sposare
Anna di Bretagna, la vedova di Carlo VIII. Luigi XII creò Cesare Borgia duca
del Valentinois, conte di Diois, e
signore d’Issodun, e gli diede in moglie una principessa, Charlotte d’Albret,
sorella del re di Navarra.
Proselitismo – Il papa in Birmania e in Bangladesh, dove i cattolici
si contano, e anche i cristiani, sembra ripetere il tema del film di Scorsese
sui gesuiti portoghesi in Giapone, e sul racconto storico dallo stesso titolo su
cui Scorsese ha impiantato il film, di Shusaku Endo. Arnold Toynbee spiega in
“Il mondo e l’Occidente”, 1952, che il governo giapponese nel Seicento non
temeva tanto le conversioni, ma che la conversione stessa non fosse un atto di
fanatismo, e quindi di pericolo per lo Stato, per la possibilità che il
fanatico tradisse: “Ciò che temevano gli statisti giapponesi era che i
compatrioti che questi missionari stranieri andavano convertendo al
cristianesimo occidentale assorbissero lo spirito fanatico della religione
adottata e, sotto questo influsso demoralizzatore, si lasciassero adoperare a
mo’ di «quinta colonna», come diremmo oggi in Occidente”.
Questa la
spiegazione che lo storico faceva seguire: “Se il sospettato disegno fosse riuscito,
allora portoghesi e spagnoli (le nazionalità dei missionari, n.d.r.), che in sé
non costituivano una seria minaccia all’indipendenza giapponese, avrebbero
potuto ordire una conquista del Giappone mediante l’ausilio dei traditori
giapponesi. Il governo giapponese del diciassettesimo secolo mise fuori legge e
represse il cristianesimo per lo stesso motivo che oggi induce i governi
occidentali del ventesimo secolo a mettere fuori legge e reprimere il
comunismo; e proprio un elemento comune a queste due fedi occidentali – il
fanatismo ad esse trasmesso in eredità dal giudaismo – ha fatto da pietra
d’inciampo in ogni paese asiatico in cui è stato propagandato il cristianesimo”.
Lo stesso in
Cina, il cristianesimo vi è avversato per la sua carica mobilitante?
Machiavellico
(Francia-Italia 2) –
Si può dire aggettivo francese, più che italiano, di conio e imposizione
francese. Il “disegno di conquista che la Francia conduce, strategico e
militare, nei confronti dell’Italia”, che sarebbe al centro del libro di
ricordi in via di pubblicazione di Roberto Napoletano, “Il Cigno Nero e il
Cavaliere Bianco”, sarà forse vero (la prova non c’è, è una valutazione. “Nei
circoli internazionali il ragionamento geopolitico prevalente dà per acquisito
che i francesi vogliono conquistare il Nord Italia”), ma è ben solido nella
storia, secolare, radicato. Fino alla difesa del papa contro l’unità d’Italia repubblicana
nel 1849, e dieci anni dopo di sostegno all’unità dell’Italia, in funzione antiaustriaca.
Il machiavellismo ne è la chiave:
la sua creazione e l’imputazione, da “machiavellici”, a ogni cosa italiana.
Il re francese Luigi XI, definito
speso il “quasi italiano”, da ultimo da Bouchardon (“Léonard et Machiavel”),
per il cinismo, non aveva nulla di italiano. Più propriamente era detto “il
ragno universale”, per la bruttezza e gli intrighi, a partire da quelli
innumerevoli orditi contro suo padre, Carlo VII, quello di Giovanna d’Arco. Fu
suo figlio Carlo VIII, quello della “discesa” conquistatrice in Italia. Luigi
XII, il successore di Carlo VIII, che distruggerà le ambizioni regali degli Sforza
e di Milano, fu suo cugino. A Luigi XII d’Orléans, figlio del poeta Charles d’Orléans,
Luigi XI aveva dato da sposare sua figlia Giovanna, nata deforme dalla sua
seconda sposa, Carlotta di Savoia - sposata tre anni prima, quando aveva otto
anni, per la ricca dote.
Luigi
XI si faceva chiamare il Prudente, per imbrogliare le carte. Carlo VIII, con le
sue pretese dinastiche e cavalleresche, sconquassò il principio dell’ordine
“italiano”, della pace fra i principi, concordata nel 1454 e sottoscritta a
Lodi. Luigi XII attaccò e sottomise Milano. Era, come Cesare Borgia spiegherà a
Machiavelli una notte a Imola, “il padrone della bottega”, cui non si poteva
dire di no.
Fu
sotto i colpi della “furia francese” che svanì il disegno di una politica di
pace e di progresso, spiega qualche anno dopo lo stesso Machiavelli alla fine
del cap. settimo, quello conclusivo, dell’“Arte della guerra”: “Credevano i
nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle
oltremontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi, pensare
una acuta risposta, scrivere una bella lettera,mostrare ne’ detti e nelle
parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro,
dormire e mangiare con maggiore splendore che gli atri, tenere assai lascivie
intorno,governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio,
dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro
dimostrato alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di
oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano a essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero
poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe e
le miracolose perdite”.
L’aggettivo
machiavellico deve poco o niente a Machiavelli e molto alla Francia, che lo
coniò e lo adopera come maschera. A partire, qualche anno dopo i Luigi di
Francia (che il milanese Gadda ha immortalato con ironia sofferta), da Caterina
di Medici, la prima vittima. Luigi XII, presso il quale Machiavelli era stato
mandato in missione speciale dalla Repubblica di Firenze nel secondo semestre
del 1500, si era già illustrato in Italia aiutando militarmente la Repubblica contro
l’insurrezione di Pisa. Questo a maggio del 1500, cinque anni dopo che la
resistenza opposta con successo da Firenze a Carlo VIII. I guasconi e gli
svizzeri mandati dal re di Francia si guardarono bene dall’impegnarsi in
battaglia, e la Repubblica fiorentina decise di non pagarli – Machiavelli fu
mandato per questo due anni dopo, a inseguire la corte nomade di Luigi XII (i
re di Francia non si erano ancora accasati a Parigi), per cercare un accordo.
astolfo@antiit.eu
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