Uno dei racconti di “Addio, Columbus”, 1959. In originale con traduzione,
di Vincenzo Mantovani. Sulla colpa di essere ebrei.
Il sergente Marx, reduce dalla cavalcata attraverso l’Europa all’inseguimento
dei tedeschi, è confrontato in patria, nella caserma in cui addestra le reclute
per la guerra ancora in corso nel Pacifico, con l’ebraismo rimosso. In persona di una recluta che dell’ebraismo si fa scudo, spendendo anche la
memoria dei morti di Hitler – non si parlava ancora di Olocausto. Al punto da
ricattare il suo sergente, che non si ritiene diverso per essere ebreo.
È un racconto sulla colpa di essere ebrei che diventa una forma di orgoglio.
“Perché non vuoi essere come tutti gli altri? Perché devi sempre cercare il
modo di farti notare”, obietta il sergente alla recluta strafottente. Che gli
oppone una mozione degli affetti minaccioso - “Dicono che anche Hitler fosse
mezzo ebreo”. La storia di un imbroglione, si direbbe in altro contesto. Ma
nello specifico no, non è concesso.
“Quando
sul New Yorker del 14 marzo del 1959 apparve il racconto Defender of
the Faith di Philip Roth”, racconta la copertina, “l’autorevole
rivista fu sommersa da migliaia di lettere di protesta, nelle quali si
esprimeva lo sdegno e la rabbia per il fatto che quel giovane autore ebreo, al
suo esordio letterario, avesse avuto l’ardire di rappresentare un personaggio
ebreo con quei tratti tipici della più becera pubblicistica antisemita d’ogni
tempo: viziato, pigro, scaltro e manipolatore all’eccesso”.
Un racconto etnico. Giocato sull’inadeguatezza, ma come una difesa
aggressiva.
Philip Roth, Defender of the
faith-Difensore della fede, La Bblioteca di Repubblica-L’Espresso, pp. 95 €
2,90
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