È
una delle poche legislature repubblicane durate cinque anni, quella che si conclude, la
numero 17, e una delle meno onorevoli. Dal punto di vista del Parlamento, che è
il fulcro della democrazia italiana – la Costituzione è parlamentare,
l’esecutivo non vi è previsto.
Un
terzo dei parlamentari, 345, ha cambiato partito – qualcuno lo ha fatto più
volte, i cambiamenti di partito sono stati 546, un record. I due partiti del
sistema elettorale maggioritario – l’unico che dà forza al Parlamento – ne escono
indeboliti dalle scissioni. Quasi tutte le leggi
approvate, comprese quelle di blancio, sono inapplicate, in attesa dei regolamenti
attuativi. Un centinaio di leggi sono state approvate da un ramo del Parlamento
ma non dall’altro: lavoro sprecato. Tutte le leggi di rilievo sono state approvate
col ricorso alla questione di fiducia – la diciassettesima ha fatto il record
dei voti di ficucia. Record anche di decreti governativi – leggi che hanno
effetto immediato, prima che il Parlamento le voti.
Una legislatura che si è retta su un partito minoritario,
il Pd. Peraltro uscito perdente, rispetto ale previsioni, dalle elezioni nel
2013. Che nessun partito vinse. Col 25 per cento di astensioni, un elettore su
quattro. E un voto di protesta che ha moltiplicato il partito nuovo di Grillo.Una legislatura che andava interrotta subito, non avendo espresso una maggioranza di governo possibile. Che il presidente della Repubblica Napolitano ha invece voluto continuasse “alla scadenza costituzionale”. Con quattro effetti macroscopici, non propriamente costituzionali, e non produttivi politicamente: 1) una serie di governi del presidente, molto poco costituzionali; 2) la necessaria riforma costituzionale bruciata dalla crescente antipolitica; 3) un voto di protesta, per i 5 Stelle, cristallizzato per cinque lunghi anni dal perverso ruolo dell’informazione pubblica (sta più in Rai Di Maio che Mattarella); 4) lo sbriciolamento del Pd, il partito dello stesso Napolitano.
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