Ritorna il romanzo di Giuliano l’Apostata,
quello che combatté tutti gli dei per il desiderio che lo divorava del divino. Romanzo
storico filosofico: accurato nella ricostruzione, ma impregnato di filosofia –
d’incertezza. Niente avventure. O meglio: l’avventura umana. Tra obbedienza e ribellione. Tra fede e
rifiuto. Tra potere e intelligenza.
Un romanzone, con tutti gli attributi. Compreso
un pizzico di horror – c’è anche la cucina da chef. Nel momento migliore per la drammaturgia, della convivenza
tra paganesimo e cristianesimo, che consente situazioni originali – il
cristianesimo visto con disincanto dal pagano.
Un esercizio di bravura su un personaggio però
gracile, non un eroe. Incerto e al fine indifferente: monaco e beghino
dapprima, poi persecutore dei correligionari. “Unisci, se puoi, la verità del
Titano e quella del galileo” è l’esortazione-sfida, maiuscola e minuscola
incluse, dello ierofante Massimo di Efeso al neo Cesare in una cerimonia di
iniziazione ai misteri: una sfida invece di una certezza. Il potere si vuole
certezza, e quando un confidente lo rimprovera: “Perché inganni quel povero
ragazzo?”, il teurgo ribatte: “È lui che vuole essere ingannato”.
È lo snodo del romanzo, il capitolo X, o dell’incertezza.
Massimo è un mago. Un imbroglione. Che
non si nega: “Giuliano ha visto quello che vuole vedere”. E in generale: “L’uomo
ha bisogno dell’entusiasmo”. Tutto è vero “per colui che crede”. Perché: “Dov’è
la verità? Dov’è la menzogna? Tu credi, e sei”.
L’interesse principale della lettura oggi è l’autore.
E il fatto che si riedita senza fortuna, dopo i 70 anni di silenzio imposto dal
suo antiboscevismo: il Muro non è caduto. Un autore e un romanzo che hanno avuto
una fortuna immensa a fine Ottocento, non immeritata – ventitré edizioni censisce
Luigi Vittorio Nadai, che cura la ristampa, in Francia nei dieci anni tra il
1895 e il 1905, diciassette nel solo 1901. E una storia che farà da modello a
M. Yourcenar per l’“Adriano” che l’ha consacrata. Su una base filosfica che ha
impregnato almeno due generazioni di scrittori, il più illustre dei quali è
Borges.
Un romanzo a parte è la postfazione di Nadai.
Che spiega il tratto essenziale della complessa figura di Merežkovskij, già
protagonista delle lettere russe, nei venti anni prima della rivoluzione d’Ottobre,
poi proscritto, con Zinada Gippius, sua moglie, e fiero antibolscevico a Parigi
fino alla morte nel 1941. Dopo aver provato a farsi forte con Mussolini, che
però non lo ricevette una seconda volta,
e perfino con Hitler, che pure detestava. Questi comprensibili cedimenti del
lungo esilio ne hanno pregiudicato la memoria, ma il personaggio è di tutto rilievo.
Nella soria letteraria russa, e in proprio. Creatore e animatore del
simbolismo, fucina delle avanguardie russe. Quindi teorico di una nuova sintesi
tra Stato e Chiesa, religione e potere. Autore prolifico e fortunatissimo
finchè non dovette abbandonare la Russia: con l’esilio perse la vena e la
voglia. “La specificità della storia russa”, spiega Nadai, riportando “a una
problematica generale della storia dell’Occidente”. La Russia non è lontana.
Dmitrij S. Merežkovskij, La morte degli dei-Giuliano l’Apostata, Castelvecchi, remainders, pp. 377 € 9.75
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