Niente
va a Roma, eccetto lo stadio della Roma. Non vanno i mezzi pubblici. La
spazzatura si raccoglie poco e male (pure la carta, differenziata che si fa da
quarant’anni: i cassonetti ovunque traboccano). Non si riparano strade né frane.
Lo stadio invece va. A velocità impensabile, considerato che è un progetto
immobiliare, di quelli di solito soggetti a innumerevoli vincoli.
Sono
caduti i vincoli del piano regolatore e edilizio. Sono cadute le pregiudiziali
conservative: architettoniche (il velodromo preesistente, dell’architetto Julio
Garcia Lafuente, verrà semplicemente spostato, come si è fatto per i templi di Abu Simbel, a spese della Sovrintendenza, che per altre esigenze non ha un centesimo di fondi), e naturalistiche (l’ansa del Tevere è una zona umida). Niente
ristrettezze contabili sul progetto: il Comune di Roma urbanizza l’area, lo
Stato ci costruisce un ponte d’accesso - Roma utilizza ancora un ponte Bailey postbellico come trafficatissimo ponte dell’Industria, ma per l’As Roma questo e altro (e poi un miliardo in più di deficit pubblico
non è un problema). Il miracolo è possibile perché c’è unanimismo politico: il
costruttore Parnasi sa come si deve fare, fra i tre schieramenti.
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