Ambrogio,
il vescovo milanese eletto dal popolo, che nella seconda metà del IV secolo ne
codificherà i riti, inaugura anche il canto in chiesa, corale, di popolo. Sulla
traccia di Ilario vescovo di Poitiers, che ne aveva tratto l’uso dall’esilio in
Oriente. Il canto in chiesa aiutava, scrisse sant’Agostino, appena convertito,
nelle “Confessioni a Dio”, “la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a
morire per il suo vescovo”, vigile contro Giustina, la madre del giovane
imperatore Valentiniano, che voleva cacciare Ambrogio e imporre gli ariani.
Sono
canti di una religiosità ferma e conchiusa – non polemica, (ri)vendicativa,
partigiana, né lagnosa. Il cui revival venti anni fa, cinque
traduzioni distinte traduzioni, si è presto spento, dopo il pontificato di
Giovanni Paolo II e il cardinalato di Martini.
Gli
inni scandiscono le ore della preghiera e i tempi teologici. Una metà, l’altra metà canta i martiri. In linguaggio
semplice, e insieme complesso - forse per questo presto dimenticati, il revival
fu un fuoco di paglia: Ambrogio versifica in dimetri giambici, metro latino dal
ritmo semplice, analogo al settenario. Saranno una delle fonti del canto piano
gregoriano..
“Resta
la nostalgia”, si consola il traduttore dell’edizione Oscar, Mario
Santagostini, “verso quel sentimento e quel modo di concepire lingua e poesia”.
Che pena che i concili ultimi, per essere democratici, le abbiano ridotte a
chitarrate.
L’edizione
Oscar si avvale di un robusto inquadramento filologico di Carlo Carena.
Ambrogio,
Inni
Nessun commento:
Posta un commento