“Perché soltanto in musica allignano i fanciulli
prodigio? Perché il musicista è il meno creativo, il più ricettivo,
il più femminile degli artisti”. Ma non battute o freddure, ragionamenti
compiuti: “Perché nel musicista l’ispirazione opera più che nelle
altre arti (in pittura, arte maschile per eccellenza, l’ispirazione non
esiste), ossia il fenomeno di una volontà esteriore che colpisce il musico e lo
satura di sé”. Seicento pagine tutte da leggere, piene di intelligenza, il più
spesso sorprendente.
Con punte vertiginose. “Fine dell’ironia, diversamente da come credono i più, non
è di porre uomini
e cose in burla, ma di
scoprire, velatamente e indirettamente, la verità più riposta in fondo agli
uomini e alle cose, così da non
offenderli, da non guastarli, da non colpirli a morte, come
avverrebbe se questa riposta
verità fosse tirara fuori direttamente e senza gli accorgimenti, la
delicatezza, l’ «anestesia» che
in questa operazione, di tutte la più amara, mette l’ironia”. O il male:
è il
male che dà sostanza – carattere, vigore alla vita. In anticipo sui tempi anche con la morte
dell’uomo, dopo quella di Dio: “L’uomo è
morto, l’universo non è più umanistico”. Conseguenza
non inevitable dell’universo copernicano.
Savinio soffriva già del distinto
egualitarismo che ci assedia, del postumano. Seppure a modo suo,
tra occhio di lince e compassione – ironia.
A
un certo punto rivendica con l’intelligenza, con
orgoglio
e pregiudizio: “Sono immune da isterismi. Nessun complesso altera il mio giudizio.
La
mia
mente chiarissima antepone l’idea del giusto a qualsiasi altra idea”. Per poi
continuare, contro
“la
sterilità pretenziosa, madre feconda dei gruppi”: “La odio soprattutto nei Paul
Valéry, negli
André
Gide, nei suoi rappresentanti più pomposi. Il basso sentimentalismo di Puccini
mi nausea,
quello
dei Debussy e dei Ravel mi nausea anche più”. Goethe gli fa “venire l’orticaria”, come poi a
Bernhard – “questo equivoco colossale del
pensiero e delle arti,
questa caricatura del genio, questo
enorme e seccantissimo dilettante”.
Era un recensore che pensava
mentre scriveva. Riletto poi oggi, in clima di bonaccia e correttezza, sa
perfino di sulfureo, anche se è l’opera di un mite, che più che altro si
divertiva. “Io vivo in una perpetua condizione di felicità”, segnala a metà
pecorso: “E vivo così perché non do presa alla noia. E non do presa alla noia
perché passo di continuo da poesia a poesia…”. Senza essere monomaniaco, benché
gli scritti qui assemblati riguardino il Savinio critico musicale per i
giornali, assiduo e professionale, negli anni 1940, durante la guerra e dopo. “Nella sua
estrema civiltà, il Settecento era arrivato non alla confusione, ma alla
soppressione dei sessi”. Sessanta, settant’anni fa, Savinio era già
post-femminista, post-genere? “I personaggi del Settecento sono dei neutri
sorridenti e abili a tutti i giochi. La determinazione sessuale il melodramma
italiano la ritroverà col giovane Verdi, serio e inetto allo scherzo”.
Spesso divagante, curioso. Le nazionalità distingue
in musica, italiana, russa (“il russo è l’uomo più
musicale del mondo”)., tedesca, inglese,
francese, spagnola. La differenza tra Mussolini e Eden?
“Mussolini non conosceva Proust, Eden lo
conosceva e lo aveva anche tardotto in inglese”. Tutti
pezzi di bravura, quelli qui trascritti, da
antologia. Come se il recensore scrivesse per una
collettanea postuma, o è l’effetto di una
scelta di gusto da parte degli editori. Comunque, una critica
militante di qualità eccellente. Gran
“dilettante”, nell’accezione di Stendhal – che spesso evoca
prospettandosene una reincranazione -
“nella mia vita anteriore, in persona di Henri Beyle”. E come
Stendhal “scintilla di spirito, brulica di
idee”. Il critico esploratore. Il critico come Colombo, un
esploratore anche in terre e acque
conosciute. Sulle quali esercita il piacere della scoperta. Di
pieghe sottili ma anche di vedute generali
prima trascurate.
Savinio è una spugna, artista impregnabile. Sta coi
musicisti, a Monaco di Baviera, è musicista. Sta coi poeti e le avanguardie
a Parigi, è poeta. Sta coi pittori in guerra a Ferrara, è pittore. Ma sempre
pieno di umori. Era l’unico italiano a figurare nell’“Antologia dell’umor nero”
di Breton, 1940.
Tutto del resto nella raccolta è appropriato, oltre
che un po’ memorabile – suggestivo, significativo. Di Mozart e in genere:
“L’infanzia non è una condizione naturale, è un’opera d’arte”. Delle
coincidenze: “Nell’incontro fortuito delle parole i Greci riconoscevano la voce
della divinità”.
Inventore.
Alla “Norma” imputa il “costante «aeiouismo», la sua mancanza di consonanti”.
Beethoven, di cui non c’è l’eguale, è pari e dispari: le sinfonie: “Tre, Cinque,
Sette, Nove, numeri diaspari e «fatali»”, mentre le pari, “Due, Quattro,
Sei, Otto” sono “le sinfonie piane di Beethovern, le sinfonie bianche,
le sinfonie «senza Destino»”. In poche righe anche una sottile psicologia
dell’italiano nel canto, del “bisogno di portarsi a terra con una decisa e
secca cadenza”. Ritardato, al più, da “una «fioritura» (il nodo sonoro) che
ritarda la cadenza”. La “cadenza” è il compimento della frase musicale. È il
«sì» perentorio, la soluzione che non consente replica né differimento. «È così
perché è così», «È così non può essere
altrimenti»: meglio: «non deve essere atrimenti». Anche la cadenza fa parte del
cattolicismo italiano, dello spirito tolemaico degli Italiani”. Il “nodo” è “la
complicatissima filigrana che preede la cadenza”: “Il cantante traccia cn la
voce come dei nodi vocali, delle lunghissime circonvoluzioni, dei
labirinti a curve (di solito le vie del
labirinto sono ad angolo) e vi si chiude dentro come un uccello nella gabbia,
coe il baco nella seta, come la trottola nelo spago”, si riavvolge, “come una
firma nel suo svolazzo”.
Si parte dalla musica
indivìsibile, un paio di saggi seriosi. E si conclude sullo stesso tono
elevato.
Sul canto, e sulla musica strumentale
(contrapunto). Vengono in coda gli scritti teorici del 1914 a
Parigi, in francese – Savinio era a Parigi da
musicista. Con le testimonianze di
Apollinaire e Breton. Ma la raccolta è
soprattutto degli “scarti”, le deviazioni a sorpresa. In un
madrigale di Montevedi
uno dei temi più noti del “Maestri cantori” di Wagner. Il “Bolero” di Ravel
è “un basso ostinato”.
Bach è un “arabogotico”. Nietzsche, baffuto filosofo dagli occhi ingrottati” è
Monteverdi – Monteverdi
ha scritto la musica che il filologo-filosofo avrebbe volute saper scrivere.
“La musica di Vivaldi va
a gonfie vele”, quando si navigava a vela. “La musica è per sua natura
squisitamente
invernale”. “Il contrappunto è nella musica ciò che la dialettica è in
filosofia. È la
dimostrazione del
principio che «da cosa nasce cosa»”. “Il contrappuinto, e così la dialettica,
vanno
a scapito della profondità”.
Con molti personaggi: Edwin Fischer, Paderewski, Gieseking, Furtwängler,
Casella, De Sabata,
Igor Markevitch, Djaghilev. Solo contro il
verismo perde l’amabilità, in letteratura e in musica.
Molto c’è di Bach e di Mozart – nonché di Wagner, e di
Strawinsky. Bach è “cattolico” – irresistibile e incontrovertibile. Bach non è
profondo: “Ed è appunto questa questa mancanza di profondità di Bach, questa
sua ingenua serietà, questo suo «non costituire pericolo», che fanno il suo
fascino e giustificano l’attrazione ch’egli esercita ormai sulla borghesia”. Bach visse nel Settecento,
ma non ha nulla di quel secolo: la ragione? la Nuova Scienza? Copernico,
Galileo? Mozart è eterno fanciullo. Fino ai 35 anni. Si sceglie la parte di
Leporello: “Nel «Don Giovanni, il personaggio nel quale Mozart «si è messo» è
Leporello”». Schumann è l’eterno adolescente.
Le citazioni sarebbero interminabili. Con pregiudizi,
e qualche limite. Su Cézanne. Ma, anche qui, vedendo nell’insieme sempre chiaro:
Cézanne fa la pitturta all’“epoca dell’ingegnere ateo”, del positivismo,
secondo Ottocento. Su Puccini, su Wagner. In tanta assidua militanza, da critico
settimanale, forse anche quotidiano, non una pagina su Puccini, giusto accenni
derisori: “basso sentimentalismo, “compositore per la media e piccola
borghesia, immediatamente superiore all’autore di operette e a quello di
romanze da camera”. Di Wagner, non amato benché rispettato, ovunque trovando
orme di “prestiti” non dichiarati, da Rossini, da Beethoven, da Bach.
La riedizione si aggiorna. La raccolta è la stessa
pubblicata da Ricordi nel 1955, tre anni dopo la morte di Savinio. Completa con
l’appendice documentaria aggiunta all’edizione Einaudi del 1977. Il saggio
conclusivo dell’edizione Einaudi, di Fausto Torrefranca, è qui sostituito da
uno di Mila De Santis, l’introduzione di Luigi Rognoni da quella del curatore
Francesco Lombardi.
Alberto
Savinio, Scatola Sonora, Il
Saggiatore, pp. 600 € 34
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